Sølve Sundsbø. Beyond the still image

© Sølve Sundsbø

 

Dal 15 Novembre 2018 al 09 Dicembre 2018

Milano

Luogo: Palazzo Reale

Indirizzo: piazza Duomo

Orari: lunedì 14.30-19.30; martedì, mercoledì, venerdì, domenica 9.30-19.30 giovedì e sabato 9.30-22.30. Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura

Curatori: Alessia Glaviano, Michael Van Horne

Enti promotori:

  • Comune di Milano – Cultura
  • Palazzo Reale
  • Vogue Italia

Sito ufficiale: http://www.palazzorealemilano.it/



The moment you doubt whether you can fly, you cease for ever to be able to do it.
J.M. Barrie, Peter Pan 

Fantasy is hardly an escape from reality. It’s a way of understanding it.
Lloyd Alexander

Quest’anno i suggestivi spazi dell’Appartamento del Principe, a Palazzo Reale, ospitano la monografica del celebre fotografo di moda e filmmaker Sølve Sundsbø. Un’immersione nell’immaginifico universo dell’artista, attraverso un percorso composto da foto iconiche e opere inedite, video, proiezioni e installazioni site-specific, per approfondire una poetica che ha fatto dell’uso pionieristico della tecnologia la propria cifra stilistica, e della sfida alla bidimensionalità della fotografia la sua ragione poetica. 

Se la fotografia non è mai trascrizione fedele della realtà, questo è particolarmente vero per Sølve Sundsbø, che, con le sue opere sperimentali ha creato un’estetica innovativa che proietta la fashion photography oltre i limiti dell’immagine a due dimensioni. E basta sfogliare gli editoriali realizzati oltre che per Vogue Italia, per riviste come i-D, V, Dazed & Confused e The New York Times Magazine per rendersi conto di quanto abbia saputo rivoluzionare il linguaggio della fashion photography, con complesse e sofisticate composizioni, ottenute grazie all’uso visionario di diversi tipi di illuminazione e di tecniche non tradizionali, come raggi x e scansioni 3D, ossia attraverso una iperscrittura dell’immagine che non ha remore a utilizzare le più disparate risorse che il progresso tecnico e scientifico mette oggi a disposizione dell’artista.

Nessun dubbio allora sul fatto che la ragione che ha portato Sundsbø a preferire la fotografia di moda ad altri generi fotografici, sia la libertà espressiva e la varietà di approcci che questa consente, senza inibizioni di sorta e soprattutto senza preconcetti. Qui tutto è permesso, sperimentazione, ricerca, magia, mentre gli unici, sottili e delicati limiti, sono quelli del buon gusto. Perché la fotografia di moda d’alto livello appartiene al campo dell’arte. I vestiti sono solo dei props come tutti gli altri elementi dell’immagine. L’economia ristretta dei significati commerciali non rende neppure conto della sua origine storica, che da subito non ha nella funzionalità il suo criterio, ma piuttosto in un qualche genere di “eccedenza” d’arte, rispetto alla mera funzione della merce.

Permettetemi una digressione. La fotografia di moda è molto varia, le ispirazioni e i generi, le correnti al suo interno, sono pressoché infinite. Curiosamente però, l’avvento dei social media, anziché enfatizzare la natura eteroclita della fotografia di moda, l’ha accusata, spesso con una punta di fanatismo, di veicolare modelli irraggiungibili e ha messo sul banco degli imputati l’eccessiva post-produzione dell’immagine e con essa la complessità di scritture che possono abitare e sovradeterminare la fotografia d’autore. Tutto questo a favore di un’estetica realistica e documentaristica fatta di luce naturale, uso di photoshop ridotto al minimo e ritorno all’utilizzo della pellicola, che non è priva di una certa naiveté. Se non altro nella pretesa che sia possibile una fotografia “al naturale”. 

Ora, è fisiologico che l’estetica dominante di un certo periodo sia il risultato della reazione all’estetica del periodo storico precedente e ai suoi eccessi. Così il desiderio di una maggiore corrispondenza alla realtà, per quanto riguarda il corpo delle donne nella fotografia di moda, è forse e giustamente, la reazione alla celebrazione di un’ideale di bellezza irreale e stereotipato, dovuto ad anni di post-produzione selvaggia, in cui il modello femminile proposto aveva ben poco di realistico. Ed è un segnale importante e positivo che oggi si desideri  un corpo reale, sincero, ritratto con i suoi segni, le sue imperfezioni, non più considerate come “errori” da ritoccare ma come splendidi elementi costitutivi dell’unicità. Ma credo sarebbe uno sbaglio se tutto questo anelito di verità privasse la fotografia di moda della dimensione del sogno, del suo tratto onirico, in nome di un certo manicheismo anti-tecnologico, che, per condannare l’idealizzazione dei corpi, finisce con il rimuovere la presenza della tecnologia nella scrittura fotografica e per questa via, con il minimizzare la potenza oniroide della fotografia di moda.

Occorre non scambiare, non confondere quella che è una partita politica sul corpo della donna, una partita che poi si traduce in un canone estetico nel quale i segni e le idiosincrasie dei corpi sono difetti da cancellare o “positività” da interpretare, con una censura della potenzialità artistica della fotografia di moda. L’idealità dei corpi, che è poi il fulcro della discussione che oppone l’estetica documentaristica, non è il “tutto” della fotografia di moda. La possibilità che questa ha di mettere in scena l’impossibile rendendolo credibile, nulla ha a che vedere con la rappresentazione di corpi più realistici, ha a che vedere con l’arte e con il sogno.”Fashion Photography is about selling dreams and not clothes” scrisse a suo tempo Irving Penn.  

Il punto è delicato perché non si tratta di una discussione interna solo alla fotografia di moda, ma di un tropo del pensiero e della pratica artistica. 

O l’arte è sempre e solo una rappresentazione della Storia e della realtà, fatta per veicolare messaggi (normalmente di critica al presente) e per questo sarà un’arte che si legge come si legge un libro, irrimediabilmente condannata a coincidere con il suo “realistico” plot. O a fondamento dell’arte stanno, come nel grande teatro di Carmelo Bene o nei quadri del grande Francis Bacon, impegnati entrambi a lottare contro il primato e la spartizione del figurativo, l’ambiguità dei segni e la gratuità dell’atto. Non la rappresentazione verosimile della vita e l’azione storica ma una “logica della sensazione” in cui il visibile, l’immagine, prende il sopravvento sul messaggio e il significato. Dove la “sensazione” si libera e emancipa dalla “riflessione” e riconquista la sua autonomia perduta ormai da tempo immemore (almeno dai tempi della Poetica di Aristotele, che faceva della tragedia greca classica, ossia della massima forma d’arte greca al tempo, “un libro che si legge”, dove tutto quello che si vede conta solo come supporto del significato che occorre capire). 

Ma torniamo a Sølve. La storia della fotografia di moda è scritta dai suoi protagonisti, i maestri dell’obiettivo e fra questi ci sono certamente quelli più vicini all’estetica documentaristica ma ci sono anche i fabbricatori di sogni o addirittura di incubi, se prendiamo questi ultimi come la versione “vera”, oscena dei primi: sono i maestri della fantasia come Cecil Beaton, Tim Walker, Steven Klein, e, non ultimo, appunto, Sølve Sundsbø .

Nel mondo di Sølve un volto femminile può smaterializzarsi e rinascere composto da fiori o raggi di luce. Il fuoco ha sembianze umane e corre di notte in un bosco, la silhouette di una donna molto elegante si liquefà in prezioso metallo. Un’imponente Lara Stone cammina verso di noi scomposta in quattro segmenti, ognuno dedicato a una diversa metamorfosi tra Lara e natura. Un abito prende vita, un volto si trasforma in pixel, tutto è possibile nel mondo fantastico di Sølve. Le sue immagini, così come i video, rifiutano qualsiasi rigido schema di aderenza alla realtà, trasportandoci altrove, in una dimensione magica in cui immaginazione e realtà si confondono e tutto può succedere. Un incantesimo così ben fatto che ci porta a credere che tutto quello che si vede nei suoi scatti si è trovato fisicamente di fronte alla sua macchina fotografica, con la stessa composizione, persino con la stessa forma e dimensione in cui appare nell’immagine.

Così è possibile, se si vuole, assimilare la fotografia di Sølve alla poesia e le sue immagini in movimento a composizioni in versi, poemi, poetry in motion. Movimenti poetici che si distaccano dall’urgenza dell’informazione e dall’imperativo della verosimiglianza alla vita e alle sue storie. Come i quadri di Francis Bacon, che si oppongono alla potenza del figurativo e del racconto; come il teatro di Carmelo Bene, che si oppone al realismo della recitazione e al primato della storia. 

Le immagini e i video di Sølve non sono chiuse, non informano mai abbastanza da consentire un unico possibile svolgimento della storia, al contrario, sono aperte a diversi significati e strati di lettura, lasciando libero chi ne fa esperienza di immaginare la propria narrativa personale, a seconda di chi è e del vissuto che porta con sé, in una catena di associazioni soggettive libere dove le mediazioni intellettuali e razionali possono solo essere una conseguenza inconscia. 

Ma ad uno sguardo più sottile e ravvicinato, la poesia in movimento di Sølve, non solo e non tanto si presta a letture differenti, personali, e non predeterminate. A un certo livello queste immagini ci offrono l’occasione di liberarci dalla superstizione della “lettera”. La loro gratuità è tale, l’ambiguità dei segni che le compongono è così potente e insieme precisa, che ogni legame con la Storia e la rappresentazione si spezza, ogni legame con la vita sfrange, mettendoci a disposizione all’esperienza più delicata e impalpabile che ci sia: quella della libertà dell’arte, di quella libertà dalla vita, dalla storia e dalla rappresentazione, che solo l’arte è capace di prendersi.

Da questo punto di vista, per raccogliere le fila, se è giusta e anche condivisibile la discussione estetica che mira a circoscrivere gli eccessi della post produzione e a richiamare la fotografia di moda ad un legame più stretto con la realtà, almeno rispetto al corpo delle donne, dovremmo ricordare che il documentario ha la propria condizione di possibilità, conosce la propria libertà, nella visione d’artista e nella sua imprescindibile gratuità. Che poi è il canone profondo dell’arte (e del sogno). Altrimenti basterebbe un buon libro. 


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