Fernanda Pivano. Viaggi, cose, persone. dal 6 aprile al 18 luglio 2011 Milano, Galleria Gruppo Credito Valtellinese – Refettorio delle Stelline Nota Informativa Nanda per noi Jovanotti: Un artista ha bisogno di avere accanto una persona così, che gli dà forza ed energia. Era una stimolatrice di idee Bret Easton Ellis: Non c' era nessuno come lei nell' universo letterario americano: Fernanda era «vera» Tra i figli dei fiori Negli Anni 60 scoprì anche l'impegno politico non ideologico del movimento pacifista contrario alla guerra in Vietnam. Gore Vidal: L'Italia tra il fascismo e la guerra era rimasta fuori dal circuito culturale internazionale: è stata un ponte con l' America Jay McInerney: La prima volta che l'ho incontrata, Fernanda Pivano era impegnata a difendere con passione un romanzo americano. Ero a Palermo con una delegazione di scrittori che partecipava a un festival letterario sovietico-americano. Se non sbaglio, l' evento era organizzato dalla sezione italiana del Pen, l' associazione internazionale degli scrittori. Eravamo ancora in piena guerra fredda. E immagino che quel convegno si proponesse di aprire spiragli di comunicazione culturale tra i due imperi nemici. Tra i miei colleghi c' era Robert Stone, e c' era anche David Leavitt. I sovietici erano tutti membri dell' Unione degli scrittori e tendevano a essere stalinisti inflessibili, più interessati a criticare il capitalismo che a occuparsi di letteratura. Per cui passarono quasi tutto il tempo a criticare Il grande Gatsby perché il protagonista era ricco, e non cambiarono idea neanche quando parlammo di ironia e di critica sociale. Tra il pubblico c' era una persona che con grande efficacia mise in ridicolo le posizioni del partito sovietico - una signora che non avevo mai visto prima. Venni poi a sapere che aveva tradotto Il grande Gatsby e che quindi lo conosceva quanto gli scrittori americani, se non di più. Me me la presentò Robert Stone: si chiamava Fernanda Pivano. Più volte, negli anni successivi, ho avuto modo di raccontare quell' episodio, e di scriverne. Voglio farlo anche oggi che Nanda non c' è più. Da quel che ricordo era molto più chic della maggior parte dei noiosi letterati che avevamo intorno, ed era piena di entusiasmo, e di energia verbale. Robert, che conosceva scrittori come Allen Ginsberg e Jack Kerouac, mi informò che Fernanda era una grande amica e una sponsor degli scrittori americani della Beat Generation, e che aveva tradotto Urlo, e Sulla strada. Era evidente che la considerava una personalità importante, quasi sacra. Solo in seguito appresi che il suo pedigree di principale sostenitrice della letteratura americana in Italia risaliva a Hemingway. Se allora lo avessi saputo, sarei stato troppo intimidito per parlarle. Sta di fatto che mi prese sottobraccio e mi portò fuori per fare una chiacchierata. Disse che voleva sapere tutto di me. In quegli anni i miei libri non erano ancora stati tradotti in italiano e pochissimi dei partecipanti al festival sapevano chi fossi. Il mio primo romanzo, Le mille luci di New York, stava riscuotendo un grande successo negli Stati Uniti ed era stato acquistato da importanti editori in Europa, ma i miei agenti non riuscivano a trovare nessuno in Italia che volesse tradurlo. Conversammo per parecchie ore, mentre sovietici e americani si accapigliavano in un' altra sala. Discutemmo soprattutto di letteratura americana, dal modernismo in poi. Parlammo di Hemingway, che lei aveva tradotto durante il fascismo, quando era vietato. Ero affascinato dalla sua padronanza di quello che consideravo il filone principale della narrativa americana del XX secolo. Diversamente dalla maggior parte dei critici, sembrava capire la profonda importanza del rock nell' evoluzione del gusto americano contemporaneo e aveva fatto amicizia, tra gli altri, con Lou Reed e Bob Dylan. La misi a parte delle mie letture e delle mie opinioni su di esse, ricordo di averle parlato del mio amico Bret Easton Ellis, anche lui non ancora tradotto in italiano. Durante quella settimana ci incontrammo ancora diverse volte, a Palermo e poi a Taormina, e passammo insieme gran parte di quelle giornate. Avevo perso interesse per il convegno, le discussioni con Fernanda erano molto più stimolanti. Quando giunse il momento di partire, dissi che volevo passare qualche giorno a Roma e lei mi consigliò di andare all' Hotel d' Inghilterra, che era stato l' hotel preferito di Hemingway. Poco dopo essere tornato a New York, ricevetti una telefonata dalla mia agente letteraria. Mi informava che in Italia era improvvisamente scoppiato un grande interesse per il mio libro. La settimana successiva al nostro incontro a Palermo, Fernanda aveva letto Le mille luci di New York e ne aveva scritto sul «Corriere della Sera»: mi paragonava ad altri noti scrittori americani. Fu grazie alla sua influenza che mi trovai improvvisamente trasformato in un grande scrittore americano ancor prima di essere tradotto in italiano (poi fece altrettanto per Bret). Essere adottati da Fernanda fa un po' paura, è difficile sentirsi degni di far parte del suo universo di giganti letterari. Quel che era forse più notevole in lei era che, a differenza di alcuni grandi critici come Edmund Wilson, apparentemente incapaci di capire le opere degli scrittori appartenenti a una generazione successiva alla loro, Fernanda ha continuato fino all' ultimo a leggere, apprezzare e sponsorizzare i giovani autori. La nostra amicizia è rimasta viva negli anni. Siamo stati assieme a molti party, e credo di essermi a volte comportato in modo piuttosto sconveniente, ma Fernanda giudicava male solo chi scrive male, e io mi consolo pensando che nei molti anni passati a far conoscere i cattivi ragazzi della letteratura americana deve aver visto ben di peggio. Tutti sanno che Hemingway cercò di sedurla. Come si potrebbe biasimarlo? Lei mi ripeteva spesso, e non senza una nota di rimpianto, di aver rifiutato le sue avance, ma mi piace credere che volesse solo essere modesta e discreta, come era nel suo stile. La sua morte è una grande perdita per la letteratura americana, per la cultura italiana e per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di esserle amici. Dubito che vedremo di nuovo critici o lettori appassionati come Fernanda Pivano. (Traduzione di Maria Sepa) RIPRODUZIONE RISERVATA – Corriere della Sera (19 agosto 2009) Erica Jong: Che tristezza. Ho avuto la notizia della morte di Fernanda Pivano mentre stavo festeggiando il compleanno di mia figlia a New York. Nanda aveva 92 anni, Molly ne ha 31. Nanda vivrà per sempre nel mio cuore e nei miei ricordi. È stata per me una seconda madre - una madre per i miei romanzi, una madre che mi voleva bene, che non mi attaccava ma mi spronava e mi dava consigli con gentilezza, cercando di rendere migliori i miei libri. L' ultima volta che l' ho vista era in una casa di cura di Milano. «È come un ospedale!», mi disse. «Non è il posto per me!». Si era appuntata sul vestito un grosso bottone con il volto di Barack Obama e la scritta «Hope». Lo indicava dicendo: «Il mio nuovo marito!». Non aveva dubbi che Barack Obama sarebbe stato un bene per l' America e per il mondo. Ogni volta che un' infermiera si affacciava, le faceva vedere il bottone e chiedeva allegramente: «Le piace il mio nuovo marito?». Enrico Rotelli (suo assistente ed editor) e io scoppiavamo a ridere. Fernanda sapeva esattamente quel che stava dicendo. Non aveva vuoti di memoria. Il suo tratto più tipico era l' umorismo e l' ha mantenuto fino alla fine. La sera precedente, alla Milanesiana, avevo avuto l' onore di essere la prima a ricevere il premio per la letteratura intitolato a Fernanda Pivano. Nanda e io fummo fotografate insieme alla cerimonia. Fernanda era su una sedia a rotelle - cosa su cui, naturalmente, ironizzava. Non le piaceva dover ricorrere a quell' aggeggio. Era piena di energia e avrebbe voluto partecipare sulle sue gambe. Pensava che gli attrezzi creati per affrontare le malattie e la vecchiaia fossero assurdi. Alla Milanesiana lessi una poesia sulle cose che nel nostro mondo disperato restano spesso invisibili. L' umorismo è una di queste, eppure è una delle più importanti. Una risata può curare un malato e rianimare un morto. L' intelligenza può combattere il fondamentalismo, il fascismo e la stupidità. Mai come ora queste qualità sono state tanto necessarie. Fernanda non ha mai perso la fiducia che l' umorismo e l' onestà potessero salvare il mondo. In questo eravamo simili. Al pari di tutti i grandi scrittori, sapeva che l' umorismo può penetrare dove l' ira non può arrivare. Non stupisce che abbia fatto conoscere la letteratura americana in Italia dopo la caduta del fascismo. Cosa c' è in comune tra Ernest Hemingway, Allen Ginsberg, gli scrittori della Beat Generation, Jay McInerney, Bret Easton Ellis e me? Crediamo tutti che la letteratura sia inutile se non è onesta. Fernanda credeva profondamente nell' onestà. Credeva che l' onestà fosse più importante della pomposità, della grandiosità e di altri atteggiamenti fasulli che gli scrittori celebri amano assumere. Mi manca oggi e mi mancherà sempre. (Traduzione di Maria Sepa) RIPRODUZIONE RISERVATA - Corriere della Sera (22 agosto 2009) Ranieri Polese: La cartolina era arrivata da Cortina. Ernest Hemingway in persona la voleva conoscere e la invitava a raggiungerlo. Era il 1948, Fernanda Pivano aveva già tradotto l' Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e in quei mesi stava lavorando su Addio alle armi di Hemingway. Lui, «Papa», come lo chiamavano quelli che lo conoscevano, era in Italia. Arrivato con la moglie Mary Welsh, lo scrittore americano stava a Venezia, un po' per rivedere i luoghi dell' altra guerra, dove si era trovato come autista della Croce rossa nella primavera del 1918, un po' per andare a sparare alle anatre in laguna. Grandi bevute all'Harry's Bar dell'amico Cipriani, battute di caccia sui barchini, poi ogni tanto una fuga a Cortina d' Ampezzo. Fernanda Pivano, Nanda per tutti, amava molto raccontare quell' incontro. «Lì per lì non ci avevo creduto, poi mi convinsero che era vero quell' invito. Presi il treno, da Torino a Cortina fu un viaggio interminabile, arrivai la sera tardi. Mi presentai all' albergo, Papa era ancora a tavola con degli amici. Mi vide, si alzò, mi venne incontro e mi abbracciò. Mi chiese: "Che cosa ti hanno fatto i nazi?" Aveva saputo che ero stata fermata dai tedeschi. Mi tenne a lungo abbracciata. Forse mi faceva la corte. Ma io a queste cose non ci pensavo proprio. Certo, era alto, grande, bellissimo. Forse saremmo potuti finire a letto, e invece niente. Che stupida ero». E tutte le volte che ripeteva il racconto, Nanda si dava uno schiaffo in testa. Dopo aver resistito al fascino di Hemingway, la Nanda sarebbe pure passata indenne attraverso la frequentazione dei poeti e scrittori della Beat Generation. Mai nemmeno uno spinello, diceva, niente alcol, funghi e peyote, Lsd e tutto il resto, nemmeno a pensarci. Quando era arrivata per la prima volta in America nel 1956, aveva subito capito la novità rappresentata da questi cercatori di nuovi stati di coscienza. Che sapevano modulare prose e versi sui battiti del be-bop, il jazz esistenzialista di Charlie Parker, si mettevano sulla strada per dilatare i confini dell' immaginario, aiutati in questo dai pesanti sussidi degli allucinogeni. Per loro - Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti - Nanda fu una sorta di affettuosa sorella maggiore, una vice-madre saggia e comprensiva. Fu lei a tradurre i loro libri, a battersi perché opere come Sulla strada e Urlo fossero pubblicate da noi. Ai poeti, soprattutto, aveva dedicato i suoi sforzi maggiori, componendo l' antologia Poesia degli ultimi americani (Feltrinelli) con cui si offriva ai lettori italiani un tesoro di novità. Li ospitava nella sua casa a Milano quando passavano di qua (Nanda era ancora sposata con l' architetto Ettore Sottsass), li aiutava, si faceva spiegare il senso e le allusioni della loro lingua da iniziati. Il tutto però senza mai passare al consumo della roba, serbandosi saggia e in ordine, senza pregiudizi. In una rara intervista televisiva con Kerouac realizzata per la Rai, la vediamo chiedere allo scrittore: «Jack, dimmi, ma perché non sei felice?» E lui, gonfio di alcol, gli occhi opachi, ormai avviato alla fine, non sa darle nessuna risposta. Cresciuta nella Torino antifascista (nella sua decisione di studiare letteratura americana fu decisiva l' influenza di Cesare Pavese), Nanda scopriva nei suoi amici americani una lezione di politica molto meno ideologica di quella che si usava da noi. Profeti del pacifismo anni Sessanta, padri della contestazione contro l' intervento militare americano nel Vietnam, Ginsberg e gli altri le regalarono un senso dell' impegno globale sconosciuto in Italia. Tanto da indurla ad avvicinarsi sempre di più alle posizioni dei radicali. Sognava, con loro, la rivoluzione dei fiori: nel 1993, ripubblicando l'antologia L'altra America (Arcana) uscita originariamente nel 1971 da Lerici, ricordava la fine del sogno, il rapido cambiamento all'indomani del Sessantotto, e si chiedeva dov'erano finiti i fiori. Sempre a fianco di Ginsberg nelle sue numerose tournée italiane (sul palco, con un triangolo battuto ritmicamente, sono in molti a ricordarla mentre salmodiava «Use dope, don' t smoke», lei che non sapeva nemmeno come si rolla uno spinello), Nanda negli anni Settanta comincia a trovarsi spiazzata da un' industria culturale inguaribilmente conformista. Le sue splendide traduzioni (Masters, Hemingway, Francis Scott Fitzgerald e i Beat naturalmente) erano dei long sellers. Ma per il resto veniva guardata con crescente indifferenza. Comincia da lì un nuovo viaggio, alla ricerca di nuovi pubblici, nuovi auditori. Vennero così i festival di poesia, la sala fumata del Macondo a Milano, il locale intitolato al luogo mitico di Gabriel García Márquez. Dei dibattiti accademici, degli incarichi universitari o editoriali, a lei non importava nulla. Fra Milano e Roma, con frequenti viaggi in America sempre in cerca del nuovo, Nanda prova a scrivere romanzi. Ma soprattutto si dedica al giornalismo, intervistando per il «Corriere della Sera» scrittori e protagonisti della cultura statunitense. È così che negli anni Ottanta conosce e fa conoscere una nuova covata di scrittori, i Minimalisti: David Leavitt, Brett Easton Ellis, Susan Minot e soprattutto l'adorato Jay McInerney. E ancora una volta Nanda è per loro consigliera, amica, compagna di strada. Confidente pure: in mezzo a guai privati e sentimentali, McInerney ricorreva spesso a lei. Ma tutto questo non bastava più. Malattie e problemi economici non la fermano. Fra i giovanissimi ritorna la fascinazione per la Beat Generation, e lei si ritrova in prima fila, testimone e protagonista dei bei momenti. Per questo, negli anni Novanta, diviene una figura di culto per le nuove generazioni, un oggetto di venerazione, un indispensabile riferimento. Nasce qui l'ultima sorprendente metamorfosi della grande Nanda: adesso è la musa dei rockers italiani delle ultime generazioni, personaggi come Ligabue, Jovanotti e Morgan dei Bluvertigo (noto fra l' altro per una storia con l' attrice Asia Argento). Sul palco dei concerti rock o nei video, ecco dunque Nanda, felice e divertita, come una volta quando accompagnava Ginsberg. L'entusiasmo era lo stesso, e nonostante l' età e gli acciacchi la passione c' era ancora, intatta e fresca. Fra le tante cose che ci lascia, forse il bene più prezioso è l' immenso archivio, raccolto in una Fondazione sponsorizzata da Benetton. Ci sono lettere, cartoline, carte, testimonianze di oltre cinquant'anni di storia e letteratura americana. Oggi quel patrimonio immenso è un oggetto di studio imprescindibile per chi si occupa degli anni in cui Nanda fu protagonista. Ma tante volte, qualche decennio fa, erano Ginsberg e gli altri che venivano a Milano per frugare tra quelle carte per ricostruire momenti ed episodi del passato di cui avevano perso traccia. Lei, Nanda, conservava tutto. Fra le poche cose perdute in un trasloco c' erano tante lettere di Paul Bowles. Quando il film di Bertolucci Il tè nel deserto lo riportò in auge, Nanda si mise a cercare le cose dello scrittore. Invano. L' unica cosa che trovò era una cartolina con un isolotto nel Pacifico: Bowles le scriveva per dire che voleva lasciare la sua residenza marocchina di Tangeri e comprarsi quel piccolo Paradiso. E Nanda la mostrava felice. RIPRODUZIONE RISERVATA - Corriere della Sera, (19 agosto 2009) Sergio Perosa: Quando a metà degli anni Cinquanta scrivevo la mia tesi di laurea su Francis Scott Fitzgerald, mi venne naturale per prima cosa andare a parlare con Nanda Pivano a Milano. Le feci, da laureando, delle domande piuttosto sciocche: se conosceva Cesare Pavese; come aveva imparato l' inglese; cosa l' attraeva in Fitzgerald, lei che amava tanto Ernest Hemingway. Forse più imbarazzata lei di me - eravamo entrambi molto giovani - mi rispose con quel sorriso dolce e aperto che le avrei sempre ritrovato sul volto, una difesa ma anche una sapiente sfida. E un modo per ricordare il suo primo ruolo, la sua prima conquista: era, e rimase per decenni, fino ad oggi, il nostro primo tramite per avvicinarci alla letteratura d'Oltreoceano, una via d' accesso per luoghi favoleggiati, che lei si era aperti da sola e conquistati con l'arrendevolezza. Arrendersi con semplicità agli altri, e alla letteratura, non è da molti. Accostarsi alla letteratura americana era stata per autori come Pavese ed Elio Vittorini un' avventura della mente, tutta culturale e politica (nessuno dei due infatti andò mai in America, anche quando divenne possibile, per scelta, timore o diffidenza). Per Nanda Pivano dev' esser stata prima di tutto un' avventura del cuore e degli affetti; e si basò su una conoscenza diretta, dei luoghi e delle persone. Ne fu un'interprete diretta, partecipe, coinvolta: sembra quasi di poter dire che prima doveva conoscere personalmente gli scrittori e l' ambiente, per poi poterne scrivere o tradurli, trasmetterne messaggio e presenza al grande pubblico dei lettori italiani. Il caso del suo rapporto con Hemingway è esemplare al riguardo: ne era «figlia», come lui era «papà», e indubbiamente senza quel tipo di rapporto ravvicinato, molta della sua freschezza e confidenza coi testi letterari sarebbe scomparsa. Ha tradotto i grandi classici - Herman Melville, Emily Dickinson e molti altri - e scritto su di loro con sensibilità estrema naturalmente, ma a me sembra che la sua grande lezione sia stata quella di indurci a trattare dello scrittore e della persona come di una cosa sola, di un amico: una lezione particolarmente importante, originale, svolta proprio nel momento in cui l' accademia si appropriava «scientificamente» della letteratura americana, e prevaleva la tendenza allo studio asettico e subliminale del testo in sé. Sbarazzina e come finta ingenua, ma attenta alle particolarità e all' eleganza della scrittura di tanti e tanti testi poi divenuti «classici», Nanda Pivano divenne conoscitrice e guida, per due o tre generazioni di lettori, di due o tre generazioni di letterati americani, che scovava e conosceva personalmente; dai Beat, intuendo fin da allora la carica non solo eversiva e ribalda, ma umana e letteraria di scrittori come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, ai «minimalisti», che fu lei a diffondere, se non quasi a inventare, in Italia come a New York, dove si recava sempre più spesso, accolta come una dei «loro». La attiravano, sì, i protestatari e gli «eversivi» - William Burroughs, Charles Bukowski e altri - perché detestava i paludamenti in cui la letteratura «arrivata» tende ad avvolgersi, i falsi o timorosi moralismi dei più, ma anche perché capiva che il grido, la provocazione o lo sberleffo sono modi di esprimere l' angoscia e lo strazio della coscienza contemporanea. Nel bel mezzo di autori e testi «scandalosi», lei conservava un suo accattivante lindore, una purezza d' animo e di cuore, una modestia di ragazzina, e la fedeltà alla prima decenza - quella della comprensione e dell' amore per le persone. Al suo meglio, credo, per natura, disposizione e scelta, nel saggio, nella trattazione breve, nell'articolo compendioso, ci insegnò soprattutto il valore della letteratura come esperienza di vita, la pochezza dell'una se scissa dalla partecipazione all'altra. I suoi libri sono frutto di frequentazioni assidue e ripetute, di impressioni e valutazioni elaborate in primo luogo nello sforzo di un' ampia comprensione. Ha avuto tanti e meritati riconoscimenti per questo suo ruolo, per la sua presenza sempre più diffusa nella nostra cultura, da istituzioni e lettori. Non ha avuto - perché non lo cercava e le sarebbe andato stretto, non avendo granché da darle - il riconoscimento dell' accademia: ed è stato meglio così. Con la sua dolcezza che nascondeva forza di appropriazione e tenacia nello scoprire, Nanda Pivano ha segnato il momento in cui la critica militante ha affiancato con autorità, e magari soppiantato, la critica togata, sussiegosa, «disinteressata» per scarsa vocazione al vivere. Non saprei darle attestato migliore: lei era tutto il contrario. RIPRODUZIONE RISERVATA - Corriere della Sera (19 agosto 2009) Furio Colombo: "Fernanda Pivano è una festa mobile", così una volta il poeta e scrittore Arnold Weinstein ha definito la scrittrice italiana in una di quelle riunioni nostalgiche in cui potevi trovarti, intorno a un tavolo smangiato del Chelsea Hotel di New York, o agli sgabelli di plastica bruciati di sigarette del "Continental Divide", sulla Terza Avenue, con Allen Ginsberg, Larry Rivers "and Company" (come a loro piaceva definirsi). Sono i grandi della poesia americana contemporanea, sono i sopravvissuti della "Beat generation" (salvo Larry Rivers, che, con il suo sassofono, è un lieto compagno di strada). Sono gli scrittori degli anni '50, '60, di una vita americana grande, promettente "priva di igiene, piena di rischi, una foresta tropicale di cose nuove" (da Naked Lunch di Frank O'Hara). Per tutti, un solo nome italiano: Fernanda Pivano. Il ricordo della festa provoca la festa, una corsa di celebrazioni, di piccoli episodi e di grande amore corrisposto. La prima volta che lei era comparsa alla libreria City Lights di San Francisco e gridava dal fondo, come a un concerto rock, quando Ginsberg o Gregory Corso finivano di leggere una poesia nuova. La prima volta che lei ha viaggiato con loro, Ginsberg, Corso, Kerouac, Ferlinghetti, seguendoli nei loro "concerti" dentro l'America, forse in coincidenza con quel primo fortuito incontro - di cui tutti si sono resi conto anni dopo - fra i poeti Beat che leggevano i loro poemi - manifesto del nuovo decennio, scortati da quella italiana carina e indomabile - e il giovanissimo Bob Dylan, che a quel tempo suonava mormorando le parole, e ha cominciato, forse, in quel momento, a prendere dai Beat la grande lezione di certe parole che trasformano realtà e percezione. La prima volta che Ginsberg è arrivato a Milano, di ritorno dall'India, vestito da guru, pronto a dormire nel sacco a pelo con cui aveva attraversato il mondo. E non si aspettava che la piccola Fernanda Pivano fosse una gran signora che poteva condurre il poeta per mano nelle case dei borghesi di Milano, zittire i salotti e far leggere poesie, declamate come un canto, a signore adoranti sedute su puff e tappeti. Da sola, in pochi anni, in molti viaggi, con un entusiasmo instancabile, Fernanda Pivano ha creato un ponte fra la cultura americana e quella italiana forte abbastanza da resistere agli umori avversi della guerra nel Vietnam, alla tensione anti-americana della Guerra fredda, alla drastica polarizzazione destra-sinistra. Il suo capolavoro: orientare la cultura militante di sinistra verso "la sua" America, quella dei grandi, nuovi poeti. Nell'intrico di legami fra i due Occidenti (Europa e Stati Uniti) il caso è unico. L'influenza della Pivano nel rapporto fra le due culture ha funzionato all'inverso: non l'egemonia americana imposta dalla forza dei media. Ma la forza tenace di una scrittrice intelligente che sapeva scoprire e portare a casa il meglio di un altro mondo. E non si dava pace finché non metteva i due mondi alla pari, in uno stato di conoscenza e di riconoscimento reciproco. È una storia d'amore ricambiato, quella tra l'America dei poeti e degli scrittori e Fernanda Pivano. Una storia d'amore con due aspetti insoliti. La Pivano non ha mai idolatrato le sue prime scoperte (che cominciano con Hemingway), non li ha mai abbandonati, non è stata mai abbandonata. E non si è mai fermata. Ha continuato a cercare i più nuovi, i più giovani. C'è un bel viaggio di storia, di vita, di frequentazione, di affetto reciproco, di vero riconoscimento e vera riconoscenza, fra l'America di Hemingway e quella di Jay McInerney. Quel viaggio, Fernanda Pivano lo ha percorso tutto, senza perdere niente, non una svista, non una distrazione, coinvolgendo sempre amici e lettori. I suoi autori - che sono tutto ciò che conta nella creatività americana di tre quarti di secolo - hanno mantenuto verso di lei un atteggiamento di affetto quasi deferente, riconoscendola non come una "fan" che viene da lontano, ma come una di loro capace di capire e di far capire, una straordinaria e appagata esploratrice di ciò che è davvero nuovo nel mondo. "Un bel modo di dare un senso alla vita", dicono adesso di lei i "suoi" poeti. RIPRODUZIONE RISERVATA – La Repubblica (19 agosto 2009)