Michael E. Smith / Ian Cheng
Dal 05 Marzo 2014 al 30 Marzo 2014
Milano
Luogo: Triennale di Milano
Indirizzo: viale Alemagna 6
Orari: da martedi a domenica 10.30-20.30; giovedi 10.30-23
Curatori: Simone Menegoi, Alexis Vaillant / Filipa Ramos
Costo del biglietto: € 6,/ € 5/ € 4
Telefono per informazioni: +39 02 724341
E-Mail info: info@triennale.org
Sito ufficiale: http://www.triennale.org
La Triennale di Milano è lieta di presentare, per la prima volta in un'istituzione italiana, i due giovani artisti americani Michael E. Smith e Ian Cheng, con due mostre personali che dialogano nello spazio espositivo con elementi risonanti e tematiche comuni. I due artisti, sia pure molto diversi nei linguaggi espressivi, condividono un approccio visionario; entrambi analizzano le tensioni contemporanee e immaginano possibili modalità di reazione e di resistenza attraverso logiche d’opposizione e di scardinamento dell’ordinario.
Michael E. Smith utilizza materiali poveri e industriali, spesso alterati sino a non lasciar traccia della propria funzione originaria; Ian Cheng disloca corpi fisici nello spazio virtuale per esplorarne le potenzialità d'azione e le possibili interazioni. Da queste rielaborazioni derivano esiti stranianti e processi imprevedibili, che invitano lo spettatore a rivedere le proprie idee di limite e di possibilità.
Edoardo Bonaspetti, curatore Arti visive e Nuovi Media, Triennale di Milano
Michael E. Smith (1977) è uno degli artisti americani più interessanti della sua generazione. Dopo aver studiato scultura alla Yale School of Arts sotto la guida, fra gli altri, di Jessica Stockholder, ha cominciato a esporre in spazi pubblici e privati negli Stati Uniti e in Europa. Nel 2012, il suo lavoro è stato incluso nella prestigiosa Biennale di arte americana del Whitney Museum di New York.
Prodotta in collaborazione con il CAPC – Musée d’art contemporain de Bordeaux, e curata da Simone Menegoi e Alexis Vaillant, capo curatore del CAPC, la mostra è una versione completamente rielaborata della personale che Smith ha appena tenuto nel museo di Bordeaux. In particolare, rispetto alla mostra francese, quella italiana include una serie di nuove opere create per l’occasione, fra cui un’installazione tra le più grandi che l’artista abbia mai realizzato, il cui elemento principale è una saracinesca da garage.
Smith crea piccoli dipinti dalla superficie tormentata; video che ritraggono frammenti di paesaggio urbano degradato, animali in cattività, gesti che sembrano appartenere a rituali incomprensibili; ma soprattutto sculture, le sue opere più note e caratteristiche.
Realizzate con una gamma di materiali che include quasi qualunque cosa, dalla resina sintetica agli indumenti usati, da ossa animali a parti di elettrodomestici, le sculture di Smith sono oggetti quasi sempre di modeste dimensioni ma dalla intensa, conturbante presenza. La loro forma e le loro dimensioni richiamano spesso quelle di arti umani; i materiali con cui sono fatte mostrano frequentemente i segni del tempo, dell’usura, di azioni vandaliche; l’inclusione di oggetti semidistrutti e di parti di animali evoca scenari post-apocalittici.
Altrettanto intenso delle opere, è il modo in cui l’artista le allestisce. I lavori – sempre pochi per volta, e molto isolati l’uno dall’altro – raramente occupano il centro delle sale; per lo più sono confinati negli angoli, seminascosti dietro elementi funzionali come radiatori o tubazioni, o addirittura appesi al soffitto. La critica li ha paragonati ad animali in agguato, o che si nascondono; il loro rapporto con l’architettura dello spazio espositivo è simbiotico. L’artista non crea mai due volte lo stesso allestimento, e la mostra alla Triennale non fa eccezione. La disposizione delle opere, completamente diversa da quella del CAPC di Bordeaux, risponde alle caratteristiche specifiche dello spazio milanese, e al momento non è possibile anticiparne le caratteristiche. Lo stesso vale per le nuove opere che saranno in mostra: l’artista le creerà sul posto nei giorni dell’installazione.
Smith dedica inoltre una particolare attenzione alle condizioni di illuminazione delle sue mostre. Che rimuova tutte le lampade, lasciando lo spazio in balia delle condizioni mutevoli della luce atmosferica, o che aumenti l’illuminazione artificiale al massimo, trasformando le sale di un museo in un abbagliante limbo bianco, Smith cerca di creare ogni volta un’atmosfera luminosa specifica. Per la mostra alla Triennale, l’artista ha scelto di isolare completamente lo spazio dalla luce naturale e di sostituire le luci a incandescenza con tubi al neon dalla tonalità molto più fredda.
L’immaginario di Smith ha le sue radici in un’America suburbana e provinciale, impoverita dalla crisi economica e messa a dura prova dalle emergenze climatiche. In particolare, l’artista è profondamente legato alla sua città d’origine, Detroit, uno degli esempi più impressionanti di quelle che vengono chiamate “shrinking cities”, le città che, per ragioni economiche o di altro genere, si restringono, implodono su sé stesse. Dopo una radicale de-industrializzazione, e dopo aver più che dimezzato la propria popolazione rispetto al picco toccato negli anni Cinquanta, Detroit è ora in larga parte una distesa di fabbriche in rovina e case abbandonate che offre, come ha scritto il critico americano Chris Sharp, “un’anteprima inquietantemente convincente della fine del mondo” (“a disturbingly convincing sneak peek of the end of the world”). È in questo scenario che ha preso forma il lavoro di Smith, ed è da esso che l’artista prende – a volte letteralmente – gli oggetti, i materiali e le immagini con cui realizza le sue opere.
L’opera di Michael E. Smith riflette le preoccupazioni e le ansie della nostra epoca, ma la sua cupezza di fondo è tutt’altro che monolitica.
Il suo lavoro non parla solo di avversità, ma anche della tenace resistenza umana ad esse. Può concedersi guizzi di humour o aprirsi a inattese oasi di lirismo, come ad esempio accade in Untitled (2013), una delle opere in mostra: una multipla proiezione video in cui una brevissima ripresa di Miles Davis in concerto, rallentata e manipolata, si trasforma in una sequenza quasi astratta, di misteriosa bellezza.
Ian Cheng
L'arte non è una cosa del mondo.
È una percezione inventata dentro di noi usando le cose del mondo.
Ian Cheng presenta una serie di simulazioni animate al computer che cambiano in modo dinamico, all'infinito, senza mai ripetersi.
Una simulazione rappresenta un insieme di cose.
Una simulazione rappresenta un ecosistema della mente.
E un video mostra una coreografia del comportamento inconscio umano.
Queste opere nascono dalla domanda: che sensazione si prova a navigare tra il caos e l'incertezza dentro e fuori di noi?
Possiamo sviluppare questa sensazione all'interno dell'arte.
Dichiarazione della curatrice della mostra:
Ian Cheng s’interessa agli stati di coscienza. Attraverso il suo lavoro esplora le possibili relazioni fra corpi e stati percettivi. Per la sua prima mostra personale in Italia, l’artista presenta un video e una serie di simulazioni animate al computer come parte di un'installazione che si rapporta alle caratteristiche ambientali della Triennale e alle sue modalità espositive.
Realizzata attorno a una pedana dalle proporzioni esagerate, l’installazione di Cheng funge simultaneamente da supporto, display e dispositivo di mixaggio. I visitatori hanno l’opportunità di osservare le opere singolarmente o di concepirle come diversi organismi costituenti un unico corpo emergente, i cui suoni e movimenti alterano la struttura dell’insieme.
Le figure che abitano le varie opere assomigliano a oggetti e forme riconoscibili: esseri umani, animali, piante, pianeti, rocce. I loro movimenti, gesti e suoni sono vagamente familiari e, tuttavia, anche profondamente sconcertanti e inquietanti.
Nonostante la virtualità di questi ambienti, c’è un forte senso di vitalità in tutta la mostra. Questa sensazione deriva dal fatto che ogni momento osservato è il risultato di una combinazione casuale, unica e irripetibile, che una volta apparsa è persa per sempre.
L’installazione, le opere o i suoi elementi espandono i concetti d'improvvisazione e performatività in un flusso temporale che non conosce né inizio né fine.
Michael E. Smith utilizza materiali poveri e industriali, spesso alterati sino a non lasciar traccia della propria funzione originaria; Ian Cheng disloca corpi fisici nello spazio virtuale per esplorarne le potenzialità d'azione e le possibili interazioni. Da queste rielaborazioni derivano esiti stranianti e processi imprevedibili, che invitano lo spettatore a rivedere le proprie idee di limite e di possibilità.
Edoardo Bonaspetti, curatore Arti visive e Nuovi Media, Triennale di Milano
Michael E. Smith (1977) è uno degli artisti americani più interessanti della sua generazione. Dopo aver studiato scultura alla Yale School of Arts sotto la guida, fra gli altri, di Jessica Stockholder, ha cominciato a esporre in spazi pubblici e privati negli Stati Uniti e in Europa. Nel 2012, il suo lavoro è stato incluso nella prestigiosa Biennale di arte americana del Whitney Museum di New York.
Prodotta in collaborazione con il CAPC – Musée d’art contemporain de Bordeaux, e curata da Simone Menegoi e Alexis Vaillant, capo curatore del CAPC, la mostra è una versione completamente rielaborata della personale che Smith ha appena tenuto nel museo di Bordeaux. In particolare, rispetto alla mostra francese, quella italiana include una serie di nuove opere create per l’occasione, fra cui un’installazione tra le più grandi che l’artista abbia mai realizzato, il cui elemento principale è una saracinesca da garage.
Smith crea piccoli dipinti dalla superficie tormentata; video che ritraggono frammenti di paesaggio urbano degradato, animali in cattività, gesti che sembrano appartenere a rituali incomprensibili; ma soprattutto sculture, le sue opere più note e caratteristiche.
Realizzate con una gamma di materiali che include quasi qualunque cosa, dalla resina sintetica agli indumenti usati, da ossa animali a parti di elettrodomestici, le sculture di Smith sono oggetti quasi sempre di modeste dimensioni ma dalla intensa, conturbante presenza. La loro forma e le loro dimensioni richiamano spesso quelle di arti umani; i materiali con cui sono fatte mostrano frequentemente i segni del tempo, dell’usura, di azioni vandaliche; l’inclusione di oggetti semidistrutti e di parti di animali evoca scenari post-apocalittici.
Altrettanto intenso delle opere, è il modo in cui l’artista le allestisce. I lavori – sempre pochi per volta, e molto isolati l’uno dall’altro – raramente occupano il centro delle sale; per lo più sono confinati negli angoli, seminascosti dietro elementi funzionali come radiatori o tubazioni, o addirittura appesi al soffitto. La critica li ha paragonati ad animali in agguato, o che si nascondono; il loro rapporto con l’architettura dello spazio espositivo è simbiotico. L’artista non crea mai due volte lo stesso allestimento, e la mostra alla Triennale non fa eccezione. La disposizione delle opere, completamente diversa da quella del CAPC di Bordeaux, risponde alle caratteristiche specifiche dello spazio milanese, e al momento non è possibile anticiparne le caratteristiche. Lo stesso vale per le nuove opere che saranno in mostra: l’artista le creerà sul posto nei giorni dell’installazione.
Smith dedica inoltre una particolare attenzione alle condizioni di illuminazione delle sue mostre. Che rimuova tutte le lampade, lasciando lo spazio in balia delle condizioni mutevoli della luce atmosferica, o che aumenti l’illuminazione artificiale al massimo, trasformando le sale di un museo in un abbagliante limbo bianco, Smith cerca di creare ogni volta un’atmosfera luminosa specifica. Per la mostra alla Triennale, l’artista ha scelto di isolare completamente lo spazio dalla luce naturale e di sostituire le luci a incandescenza con tubi al neon dalla tonalità molto più fredda.
L’immaginario di Smith ha le sue radici in un’America suburbana e provinciale, impoverita dalla crisi economica e messa a dura prova dalle emergenze climatiche. In particolare, l’artista è profondamente legato alla sua città d’origine, Detroit, uno degli esempi più impressionanti di quelle che vengono chiamate “shrinking cities”, le città che, per ragioni economiche o di altro genere, si restringono, implodono su sé stesse. Dopo una radicale de-industrializzazione, e dopo aver più che dimezzato la propria popolazione rispetto al picco toccato negli anni Cinquanta, Detroit è ora in larga parte una distesa di fabbriche in rovina e case abbandonate che offre, come ha scritto il critico americano Chris Sharp, “un’anteprima inquietantemente convincente della fine del mondo” (“a disturbingly convincing sneak peek of the end of the world”). È in questo scenario che ha preso forma il lavoro di Smith, ed è da esso che l’artista prende – a volte letteralmente – gli oggetti, i materiali e le immagini con cui realizza le sue opere.
L’opera di Michael E. Smith riflette le preoccupazioni e le ansie della nostra epoca, ma la sua cupezza di fondo è tutt’altro che monolitica.
Il suo lavoro non parla solo di avversità, ma anche della tenace resistenza umana ad esse. Può concedersi guizzi di humour o aprirsi a inattese oasi di lirismo, come ad esempio accade in Untitled (2013), una delle opere in mostra: una multipla proiezione video in cui una brevissima ripresa di Miles Davis in concerto, rallentata e manipolata, si trasforma in una sequenza quasi astratta, di misteriosa bellezza.
Ian Cheng
L'arte non è una cosa del mondo.
È una percezione inventata dentro di noi usando le cose del mondo.
Ian Cheng presenta una serie di simulazioni animate al computer che cambiano in modo dinamico, all'infinito, senza mai ripetersi.
Una simulazione rappresenta un insieme di cose.
Una simulazione rappresenta un ecosistema della mente.
E un video mostra una coreografia del comportamento inconscio umano.
Queste opere nascono dalla domanda: che sensazione si prova a navigare tra il caos e l'incertezza dentro e fuori di noi?
Possiamo sviluppare questa sensazione all'interno dell'arte.
Dichiarazione della curatrice della mostra:
Ian Cheng s’interessa agli stati di coscienza. Attraverso il suo lavoro esplora le possibili relazioni fra corpi e stati percettivi. Per la sua prima mostra personale in Italia, l’artista presenta un video e una serie di simulazioni animate al computer come parte di un'installazione che si rapporta alle caratteristiche ambientali della Triennale e alle sue modalità espositive.
Realizzata attorno a una pedana dalle proporzioni esagerate, l’installazione di Cheng funge simultaneamente da supporto, display e dispositivo di mixaggio. I visitatori hanno l’opportunità di osservare le opere singolarmente o di concepirle come diversi organismi costituenti un unico corpo emergente, i cui suoni e movimenti alterano la struttura dell’insieme.
Le figure che abitano le varie opere assomigliano a oggetti e forme riconoscibili: esseri umani, animali, piante, pianeti, rocce. I loro movimenti, gesti e suoni sono vagamente familiari e, tuttavia, anche profondamente sconcertanti e inquietanti.
Nonostante la virtualità di questi ambienti, c’è un forte senso di vitalità in tutta la mostra. Questa sensazione deriva dal fatto che ogni momento osservato è il risultato di una combinazione casuale, unica e irripetibile, che una volta apparsa è persa per sempre.
L’installazione, le opere o i suoi elementi espandono i concetti d'improvvisazione e performatività in un flusso temporale che non conosce né inizio né fine.
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