The White Gallery
Dal 28 Giugno 2016 al 17 Settembre 2016
Milano
Luogo: PoliArt Contemporary
Indirizzo: viale Gran Sasso 35
Orari: da mercoledì a venerdì 11-13 / 16-19; sabato 11-13 gli altri giorni per appuntamento
Curatori: Leonardo Conti
Enti promotori:
- PoliArt Contemporary Milano
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 388.6016501
E-Mail info: info@galleriapoliart.com
Sito ufficiale: http://www.galleriapoliart.com
La PoliArt Contemporary di Milano è lieta di annuciare The White Gallery. In mostra diciassette opere bianche di alcuni tra gli artisti che rappresentano la storia quasi ventennale della galleria milanese. Per ognuno di loro il bianco, o le sue declinazioni, sono state talvolta il momento in cui confrontarsi con l’essenzialità della propria ricerca. È proprio questo il primo filo labile che lega in un unico percorso artisti spesso lontanissimi, sia artisticamente che biograficamente. Il secondo filo, tenace, è proprio la PoliArt Contemporary, che crede ed ha creduto (anche in anni non sospetti) nelle ricerche dei suoi artisti.
Le opere di The White Gallery:
L’ormai celebre neon “Beato te”, l’aureola di Matteo Attruia, rubata dall’antica pittura e resa reale nello spazio espositivo; una “Dinamica” di Alberto Biasi del 1984, in un serrato dialogo con “Bianco”, tela del 1989 di Agostino Bonalumi, per trovare il luogo in cui fendere lo spazio e il tempo in cui s’incarna la vita intorno; di Marco Casentini, sperimentatore “concreto”, una tela e perspex, in cui si svela in filigrana il retro della pittura; e poi il simulacro della forma, il suo ultimo (o primo?) apparire, oltre il velo sterminato del bianco, in una “Plaga” di Paolo Conti; in “Annunciazione” di Marcello De Angelis l’injection painting si staglia sullo spazio senza argini, in cui è sprofondata l’idea di monocromo; i riflessi poi inseguono l’onda più bianca, la luce di “Humus”, polita ceramica di Luigi Di Tullio; nell’opera di Domenico D’Oora emerge l’altra onda, quella della pittura, sugli stratificati capitoli della storia; Ivano Fabbri cerca il bianco sul filo dei tagli dell’acciaio, nell’affilato abbaglio che attraversa le sue opere; nelle “Emersioni” di Matteo Gironi, i bianchi scandiscono il ritmo in cui la forma/materia diviene esperienza luminosa; il bianco marmo di Gigi Guadagnucci è poi un innalzarsi bachiano, in cui la pietra e la luce segnano il ritmo della vita; nel “Graffiato bianco” di Riccardo Licata è l’ombra a incidere l’alta pasta, nell’altrove della scrittura; il bianco “Inventario”di Giovanni Lombardini è la soglia di un vuoto su cui affacciarsi per dimenticarsi e riconoscersi; le “Quantità” di Sandro Martini sono un fermarsi improvviso e transitorio, un volo altissimo agguantato e subito perduto, un visibile e un pensabile che indefinitamente si perdono e si ritrovano; nelle opere di Ben Ormenese degli anni Sessanta già la forma debordava, perché i confini del mondo sconfinavano nell’arte; il bianco di Sandi Renko è il primo e l’ultimo sguardo in cui un cubo smarrisce le proprie linee, per trovare le linee del divenire-cubo; per Jorrit Tornquist il bianco è anche il passaggio, il luogo in cui passare di là o penetrare.
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