American Standard (Remix)

American Standard (Remix) - Simone Bergantini - Jarach Gallery - Venezia

American Standard (Remix) - Simone Bergantini - Jarach Gallery - Venezia

 

Dal 04 Giugno 2011 al 30 Luglio 2011

Venezia

Luogo: Jarach Gallery

Indirizzo: Campo San Fantin - San Marco 1997

Telefono per informazioni: +39 041 5221938

E-Mail info: info@jarachgallery.com

Sito ufficiale: http://www.jarachgallery.com


La mostra da Jarach Gallery sbarca a Venezia (mare anche qui, come a New York)
durante la Biennale 2011, nella settimana “santa” in cui il potere culturale americano si
trasferisce in Laguna e trasforma la città nel più grande remix di tutti gli standard del
globalismo. Non esiste un legame diretto tra le immagini da archivio e il vagabondare
mondano della folla milionaria che riempie i canali di strategie, azioni e commenti variabili.
Eppure cresce una stranissima ed affascinante sensazione: che tra gli americani nelle
opere di Bergantini e l’America culturale odierna ci sia un filo diretto che riporta la
memoria breve (perché è così la memoria locale di un americano, non avendo pittura e
scultura a raccontare i lontani secoli della propria terra) verso le peripezie del presente.
Campo e controcampo tra un passato recente e un oggi indeciso. Il campo americano
sono loro, gli avventurieri della tecnologia e della finanza, della scienza e della cultura,
dell’organizzazione e delle politiche internazionali. Dall’altra parte pulsa quel controcampo
americano che riguarda la zona media delle vite anonime, dei luoghi anonimi, del cibo
anonimo, delle case anonime. Nel controcampo crescono la storia del consumismo, gli
anni Cinquanta del boom, l’avvento del vivere pop, la passione sfrenata per gli oggetti
comodi e funzionali, per i nuovi lussi abbordabili, per la comunicazione a portata di mano.
Ed ecco le immagini dei volti in bianconero, ecco gli americani normali di un teatro dai
molti fondali nascosti. Ecco gli americani di uno standard che ingloba il punto di rottura, la
faglia silenziosa e continua. Non tutto normale ciò che luccica di normalità, potremmo dire.
Qualcosa si nasconde dietro gli sguardi sorridenti: e quel qualcosa ha il profumo acre
dell’analisi minuziosa che tagliuzza il corpo molle del consumismo. La chiave ipertestuale
di Bergantini ha capito il nodo americano con l’arguzia distaccata di un europeo
meticoloso e denso.
Simone Bergantini ha immaginato la mostra come un campo/controcampo.
Da un lato corpi su piani ravvicinati, dall’altro luoghi a campo aperto.
Da un lato il bianconero, dall’altro il colore nelle sue variabili essenziali.
Da un lato formati identici in sequenza, dall’altro formati diversi su un layout disarticolato.
Nell’unica parete centrale un singolo lavoro: limbo ideale e interpretabile, apertura del
testo.
Campo. I corpi nascono da una sovrapposizione di due fotografie che compongono la
singola immagine. Sono mezzobusti a taglio frontale, facilmente riconducibili al realismo
storico tedesco, verso August Sander per capirci. Si tratta di scatti semplici e domestici,
nulla di geniale benché ci sia un anomalo feticismo domestico, una ripetizione ossessiva
che nasconde la fatidica faglia. Nel modo da morphing assumono la tipica disarticolazione
motoria alla Francis Bacon, senza però esasperare la drammaturgia del piano visivo.
Bergantini ha trovato fotografie così banalmente normali da trasformarle in un viaggio nel
profondo verismo americano. In realtà, pur evitando la tensione muscolare delle torsioni
baconiane, si tratta di immaginari che evocano il David Lynch di “Twin Peaks” o l’occhio
straniero di Wim Wenders tra le highway californiane. Cito Lynch per la capacità di
raccontare il pathos sottotraccia, la follia dietro gesti quotidiani, il surreale nel cuore del
reale. Cito Wenders per la capacità di leggere la cultura americana come un chirurgo
emotivo che viviseziona gli stereotipi con precisione e sentimento. La sequenza fotografica
inquieta senza spaventare, come se catturasse la frattura interiore e ne riportasse un
frangente mascherato, addormentato sotto l’apparenza del sorriso o della posa da ritratto.
La pelle trema, parafrasando un film che parlava di terra. La terra trema di conseguenza,
sotto il peso di corpi instabili e anime scivolose.
Controcampo. I luoghi nascono dalla sovrapposizione di una fotografia con l’immagine
dei graffi sul negativo di quella stessa foto, il tutto virato in digitale con gamme cromatiche
non casuali. Ogni opera ha un formato diverso dalle altre, la stessa composizione del
foglio risulta unica nell’impaginazione stilistica. Sul muro i pezzi sono montati in maniera
randomica e mostrano una dominanza complessiva che richiama (senza farlo in modo
rigido) i tre colori della bandiera americana: bianco, rosso, blu. L’effetto del controcampo
nasce per contrasto: ora la precisione geometrica dei ritratti in sequenza, ora i luoghi e le
situazioni anonime che evidenziano la fatidica faglia in movimento, il sisma nascosto che
incrina l’apparente certezza del quotidiano.
La lettura del progetto evidenzia un fraseggio leggibile e dialogante, un gioco minuzioso
tra contenuti e contenitori, aperture e chiusure, chiaro e scuro. Ma tutto ciò che appare in
un modo è anche il suo contrario, l’opera vive di doppie anime ed esiste per complessità
aperte. Sono lavori che dimostrano intelligenza immaginativa ed elasticità del remix
linguistico. Ci dicono molto sul passato come archivio fotografico dell’esistente, ci dicono
moltissimo sul futuro di un linguaggio, la Fotografia, che esprimerà la sua matura
coscienza nel rapporto mercuriale con la memoria privata e collettiva.
 

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