LEVITAS. Opere di Giovanni Pinosio

© Giovanni Pinosio | Opera di Giovanni Pinosio
Dal 27 September 2025 al 11 January 2026
Portogruaro | Venezia
Luogo: Museo nazionale concordiese
Indirizzo: Via Seminario 26
Orari: dal lunedì al sabato dalle 8:30 alle 19:30 – Aperto la prima domenica del mese dalle 8:30 alle 13:30;
Curatori: Andrea Gorgato
Enti promotori:
- Direzione regionale Musei nazionali Veneto in collaborazione con l’Associazione culturale “Linguaggi e Arte” di Teglio Veneto
Telefono per informazioni: +39 0421.72674
E-Mail info: drm-ven.museoportogruaro@cultura.gov.it
Sito ufficiale: http://museiveneto.cultura.gov.it
Sabato 27 settembre alle ore 18:30 presso il Museo nazionale concordiese di Portogruaro (VE), in concomitanza con le Giornate Europee del Patrimonio 2025, verrà inaugurata la mostra d’arte LEVITAS con opere dello scultore Giovanni Pinosio, realizzata dalla Direzione regionale Musei nazionali Veneto in collaborazione con l’Associazione culturale “Linguaggi e Arte” di Teglio Veneto (VE) e la curatela dell’architetto Andrea Gorgato. Tale evento costituisce la naturale prosecuzione del progetto culturale “Interazioni”, che da oltre dieci anni si prefigge di coinvolgere l’odierno spettatore attraverso un dialogo tra i reperti dell’arte antica e le opere di arte contemporanea.
Giovanni Pinosio, diplomato in scultura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, ha approfondito lo studio del disegno anatomico e ha sviluppato una pratica artistica che fonde la linea al volume, il gesto al pensiero spaziale. La sua ricerca si concentra sulla relazione tra disegno e scultura, trovando nel filo di ferro un linguaggio espressivo capace di unire leggerezza e struttura. Questo materiale, essenziale e vibrante, gli consente di tradurre forme e sensazioni in presenze tridimensionali che abitano lo spazio con delicatezza e intensità.
Levitas – parola latina che, oltre alla leggerezza fisica, in origine significava anche instabilità e mutevolezza – viene qui riletta in senso poetico: vibrazione sottile, tensione tra essere e divenire, tra eros e archè, tra forma e dissoluzione. È il momento sospeso del respiro, quello che non trattiene e non rilascia: un’attesa viva, un confine impercettibile tra interno ed esterno.
Le opere di Pinosio nascono da questo spazio intermedio. Corpi spezzati, anatomie interrotte, membra in ascolto non si impongono, ma si insinuano. Evocano più che descrivere, aprono più che chiudere. Il filo di ferro, fragile e tenace al tempo stesso, diventa gesto, respiro, tensione grafica nello spazio: come se un disegno avesse appreso il ritmo del fiato.
Il museo stesso si fa corpo poroso, spazio respirante in cui il passato dialoga con il presente. Le antiche presenze di marmo e pietra diventano interlocutori silenziosi: accolgono senza opporsi, accompagnano senza sovrastare. Dai reperti in pietra si diparte il filo, che ricostruisce parti mancanti per poi dissolversi e intrecciarsi ai corpi sospesi di Pinosio.
Ogni elemento respira in relazione all’altro, in un ecosistema visivo in cui il vuoto è generativo, il non-finito è valore, la leggerezza è forma di ascolto. Non si tratta di esporre sculture finite, ma di rilevare un processo: fili, strutture, materiali diventano parte viva di un cantiere poetico, in cui la forma si mostra nel suo farsi. Il gesto scultoreo non chiude, ma apre.
Come un filo di Arianna teso tra le epoche, il lavoro di Pinosio ci conduce in un labirinto fatto di respiro, intuizione e desiderio. Ogni opera è una soglia: tra visibile e invisibile, tra il peso della storia e la leggerezza della visione. In un tempo dominato dall’opacità e dall’eccesso, queste presenze sottili ci invitano a fermarci, ad ascoltare il respiro del corpo. Lì dove la forma non si impone, ma semplicemente appare – e scompare – per un istante.
Giovanni Pinosio, diplomato in scultura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, ha approfondito lo studio del disegno anatomico e ha sviluppato una pratica artistica che fonde la linea al volume, il gesto al pensiero spaziale. La sua ricerca si concentra sulla relazione tra disegno e scultura, trovando nel filo di ferro un linguaggio espressivo capace di unire leggerezza e struttura. Questo materiale, essenziale e vibrante, gli consente di tradurre forme e sensazioni in presenze tridimensionali che abitano lo spazio con delicatezza e intensità.
Levitas – parola latina che, oltre alla leggerezza fisica, in origine significava anche instabilità e mutevolezza – viene qui riletta in senso poetico: vibrazione sottile, tensione tra essere e divenire, tra eros e archè, tra forma e dissoluzione. È il momento sospeso del respiro, quello che non trattiene e non rilascia: un’attesa viva, un confine impercettibile tra interno ed esterno.
Le opere di Pinosio nascono da questo spazio intermedio. Corpi spezzati, anatomie interrotte, membra in ascolto non si impongono, ma si insinuano. Evocano più che descrivere, aprono più che chiudere. Il filo di ferro, fragile e tenace al tempo stesso, diventa gesto, respiro, tensione grafica nello spazio: come se un disegno avesse appreso il ritmo del fiato.
Il museo stesso si fa corpo poroso, spazio respirante in cui il passato dialoga con il presente. Le antiche presenze di marmo e pietra diventano interlocutori silenziosi: accolgono senza opporsi, accompagnano senza sovrastare. Dai reperti in pietra si diparte il filo, che ricostruisce parti mancanti per poi dissolversi e intrecciarsi ai corpi sospesi di Pinosio.
Ogni elemento respira in relazione all’altro, in un ecosistema visivo in cui il vuoto è generativo, il non-finito è valore, la leggerezza è forma di ascolto. Non si tratta di esporre sculture finite, ma di rilevare un processo: fili, strutture, materiali diventano parte viva di un cantiere poetico, in cui la forma si mostra nel suo farsi. Il gesto scultoreo non chiude, ma apre.
Come un filo di Arianna teso tra le epoche, il lavoro di Pinosio ci conduce in un labirinto fatto di respiro, intuizione e desiderio. Ogni opera è una soglia: tra visibile e invisibile, tra il peso della storia e la leggerezza della visione. In un tempo dominato dall’opacità e dall’eccesso, queste presenze sottili ci invitano a fermarci, ad ascoltare il respiro del corpo. Lì dove la forma non si impone, ma semplicemente appare – e scompare – per un istante.
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