Burri: il chirurgo della materia

Dipinto di Alberto Burri
 

18/02/2002

“Il quadro è carne viva; l’artista è il chirurgo”. Così il critico J. Sweeney, nel 1955, racchiudeva in poche parole il tragico e violento significato dell’opera di un grande artista dell’ Informale in Italia: Alberto Burri (1915-1995). L’incisiva metafora non si discosta molto dalla realtà: Burri si laurea in medicina e soprattutto conosce molto da vicino, prigioniero in un campo di concentramento, le ferite più efferate che il secondo conflitto mondiale infliggeva ad un’umanità ormai lacera nei corpi e nelle coscienze. Tornato a Roma nel ‘46, espone i primi dipinti astratti nella galleria “La Margherita”; presto il suo interesse si indirizza verso le valenze pittoriche di alcuni materiali, oltrepassando l’annosa querelle fra astrattismo e realismo che in quegli anni monopolizzava i dibattiti culturali in Italia. Nascono le prime opere polimateriche seguite dai lavori realizzati con catrami e muffe. Ma il primo vero evento artistico è proprio agli inizi degli anni cinquanta, quando Burri per la prima volta utilizza i consunti sacchi di juta, dove opera strappi che rievocano ferite profondissime e cuciture che non sempre riescono a ricomporre lo strazio della lacerazione. Tutto appare, parafrasando sempre Sweeney, come una suggestione di carne e sangue, dove è assente soltanto la somiglianza superficiale con le creature viventi. Questa portata rivoluzionaria nel mondo dell’arte impone il pittore all’attenzione di critici ed artisti di fama internazionale; nel 1952 espone alla Biennale di Venezia e appena un anno dopo è in America per presentare i suoi Sacchi, fornendo spunti determinanti per i futuri astri della cultura americana. Ma le sperimentazioni di Burri continuano incessanti: superata la fase dei Sacchi, l’artista comincia a misurarsi con altri materiali da cui nasceranno autentici capolavori. Ecco apparire i Legni, seguiti dai Ferri, esposti alla Galleria Blu di Milano nel 1958. Il nuovo supporto viene piegato dalla forza del fuoco che crea sulle superfici una gamma cupamente luminosa, sintomo delle tematiche tragiche e desolanti che con più violenza avevano caratterizzato i Sacchi qualche anno prima. Dopo un periodo di inattività, dovuto a una lunga malattia, il pittore arriva alla creazione delle Plastiche, materia sintetica ed effimera su cui lo strappo non crea alcun clamore. Qui Burri lascia che sia ancora il fuoco a sconvolgere l’innaturale scenario di un materiale che non richiama più allo strazio della carne umana ma rievoca semmai il “nulla” violentato nella sua inconsistenza. Sarà la serie dei “Cretti” a concludere la lunga sperimentazione di questo geniale artista; le nuove opere, realizzate con terre sintetiche e vinavil, propongono una trama di spaccature e screpolature, dove la luce è intrappolata senza riuscire a svelare l‘enigma sulla consistenza materica del supporto utilizzato. Tutto diviene gioco sottilissimo sospeso fra naturalità ed artificio che immerge lo spettatore in un senso di precarietà e di disagio dovuto all’impossibilità di decodificazione della materia, quella stessa materia che fu all’origine della sua grande ed innovatrice idea di pittura.

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