Germania 2019: le discipline meno note del movimento

Galassia Bauhaus: non solo Gropius, oltre l’architettura

Peter Keler, Culla di bambino, 1922, Klassik Stiftung Weimar
 

Federico Geremei

27/11/2018

La vulgata più tenace sul Bauhaus da tempo ne sfilaccia il dna, avvitandosi (e polarizzandolo) in dualità: arti e mestieri, rigore ed eccessi, non-professori (ma maestri) e studenti, forme e funzione, standardizzazione e deviazioni. Und so weiter.
Ce ne sarebbero altre, una su tutte: il binario che ne affianca la traiettoria a quella della Weimarer Republik con cui condivise spazio e tempo d’esordio (Weimar 1919), quattordici anni di entusiasmo, coraggio ed afflati. Ed eclissi forzata sotto agli stivali nazisti. Sono però tutte utili a operare altrettante sintesi, in puro (sic) stile (sic, bis) Bauhaus. E possono giovare a una catalisi modernista, un secolo dopo quel martedì di cento primavere fa (era d’Aprile) in cui Walter Gropius fondò lo Staatliches Bauhaus.
 
L’architettura non è tuttavia stata il centro vero e proprio, non da subito e non come i bignami 2.0 consegnano ai nozionisti più pigri. Era una materia facoltativa all’inizio, per il titolo di Hochschule für Gestaltung si dovette aspettare il passaggio a Dessau e la maturazione piena con Mies van der Rohe direttore nel 1930. Idem, più o meno, per il cosiddetto “design minimalista”: un’etichetta di ieri, da subito scolorata. Oggi incerta e, peggio ancora, fuorviante per domani.
 
L’arte totale che il Bauhaus ha proposto, animato e raffinato, è stata allo stesso tempo clorofilla e biomassa di quell’ecosistema Gesamtkunstwerk. Con inciampi e azzardi, fisiologici passi di lato e balzi su balzi su balzi in avanti, ha vergato la propria stessa epica: sistemica durante e organica dopo.
 
Quale narrazione dunque per aggiornare la mappa del Bauhaus di allora? I due nuovi musei che apriranno a Weimar e Dessau – ad Aprile e Settembre, rispettivamente – ne sciorineranno orbite, intrecci e ambizioni col giusto piglio filologico (si spera), enciclopedico q.b. Numerosi eventi, esposizioni e festival sono già in calendario per le celebrazioni dei 100 anni del Bauhaus (per saperne di più CLICCA QUI).
Qui spostiamo il cono di luce ai margini di quel palco ché l’esercito dei bauhasler conta reggimenti specializzati. Guai a chiamarli specialisti, però: per Gropius quella definizione additava piuttosto gli “esperti” che commettono “sempre gli stessi errori”.


Paul Klee, Particolare della cartolina n. 4 per l'esposizione Bauhaus a Weimar dell'estate 1923 ("The Sublime Side"), 1923, Bauhaus-Archiv Berlin
 
Il design tessile è stato un’arena fondamentale per il Bauhaus, l’unica in cui le poche donne ammesse a studiare e sperimentare – soprattutto nei primi anni, quelli di Weimar (con Helene Börner a guidare il workshop dedicato) – potessero di fatto esprimersi. Una nicchia nel bias di gender in un parterre tutto al maschile, con master d’eccezione (Itten, Muche, Klee) e un’evoluzione a sé: il dettame “forms follow function” ha stentato a imporsi in quell’ambito, c’è voluto il talento di Gunta Stölzl per farlo decollare pienamente.
 
L’arte della legatoria ha solcato una delle orbite più periferiche della galassia Bauhaus: effimera e iperattiva, declinava al meglio gli slanci di sperimentazione non convenzionale su materiali, tecniche e stili. In campo tipografico quelle istanze si sono fatte più articolate ed efficaci, imponendosi da subito come tratto identitario d’appartenenza e di riconoscimento esterno: le sperimentazioni su percezione, geometria e colori di Lothar Schreyer e Johannes Itten le hanno cullate nei primi semestri, è tuttavia con Laszlo Moholy-Nagy che si sono affermate con un obiettivo preciso: chiarezza assoluta del messaggio, massima “empatia” dei segni. Quell’avanguardia bidimensionale, sublime e senza maiuscole, è ancora attuale, tra nostalgia impolverata ed autentici omaggi al (dal) moderno perpetuo. Merito dei molti allievi negli anni di Dessau e degli “ambasciatori” in quelli della diaspora forzata.
 
Restiamo sul piano 2D per un blitz nel segmento meno celebrato del Bauhaus, la pittura murale. Negli anni ’20 le palette di rifermento erano dominate da toni pastello, niente colori primari in primo piano (letteralmente e non). Kandinsky e Schlemmer avevano le idee chiare, d’accordo, ma nei primi anni si concentrarono su superfici oversize e allestimenti ad hoc. All’architettura “ordinaria” sono arrivati un po’ dopo, in compagnia – e, per certi aspetti, grazie a – Hinnerk Scheper, uno dei tanti sconosciuti famosi.


Marcel Breuer, Tubular-Steel Table Set B 9 B9-9c, design 1927, Bauhaus-Archiv Berlin, photo: Gunter Lepkowski
 
Schreyer e Schlemmer, quasi un’allitterazione cubista, hanno diretto i primi stage workshop: forme pure, colori primari, movimenti emblematici (nel vero senso del termine) e misurati. Coreografie che potrebbero oggi sembrarci astrazione incompiuta, cervellotica e siderale. Al contrario, ruotavano con la (e intorno alla) figura umana in maniera partecipata, indagatoria. Componevano la grammatica di un nuovo teatro di iper-avaguardia, prima ed oltre il linguaggio di scena che dovevano consentire: la scultura prestata al palco, senza ingombrarlo. Perfezionati col Triadisches Ballett e culminati nell’informalità strutturata di arti e arti (e poi mestieri), hanno arato solchi convergenti: performance d’agitazione politica, ricerca pura, improvvisazione metafisica. L’auditorium di Dessau diviene presto l’arena di sperimentazioni sonore, inediti ponti tra acustica ed ottica, tra ritmi incessanti e fischiettare sornione. Arte alta, altra, sempre più varia. E quasi mai eventuale.

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