Lo Sguardo nel Tempo. Opere di Alessandro Tofanelli
Dal 24 Maggio 2014 al 08 Giugno 2014
Ostuni | Brindisi
Luogo: Galleria Orizzonti Arte Contemporanea
Indirizzo: piazzetta Cattedrale
Orari: tutti i giorni 10-22
Curatori: Gabriella Damiani
Telefono per informazioni: +39 0831 335373 / 348 8032506
E-Mail info: info@orizzontiarte.it
Sito ufficiale: http://www.orizzontiarte.it
Il secondo appuntamento inserito nel calendario delle mostre e degli eventi per questa estate 2014 della galleria Orizzonti Arte Contemporanea è affidato alla mostra dal titolo Lo Sguardo nel Tempo dell’artista Alessandro Tofanelli che fa del paesaggio il protagonista assoluto dei suoi dipinti.
Diversi i critici che hanno scritto sul suo lavoro; infatti usando le parole di Antonella Serafini: “Alessandro Tofanelli, pittore ma anche uomo di cinema e di televisione, cammina nel paesaggio sin dalla nascita. Il grande parco di Migliarino è stato il luogo della sua infanzia, quello dove ha scelto di porre la sua dimora e, prima ancora che soggetto della sua pittura, è stato ed è tuttora, oggetto dei suoi documentari, nonché protagonista principale dei suoi film”.
Oppure prestando attenzione alle righe scritte per lui da Silvano Ambrogi:
“L’indeterminatezza dello spazio e del tempo è propria quindi sia dei quadri nei quali sono stati rappresentati solo elementi naturali o di paesaggio, sia dei quadri in cui compare una figura umana, e dice a noi che guardiamo che quello spazio e quel tempo che stiamo osservando sono di esclusiva proprietà di chi il quadro lo ha dipinto. È questo un altro modo per rappresentare il legame assoluto che lega il pittore Alessandro Tofanelli ai luoghi che dipinge, un modo che non passa semplicemente per la loro riproduzione naturalistica, ma passa attraverso la capacità di rendere quei luoghi estranei alle vicende del quotidiano”.
Ma forse quello che più emoziona ed avvicina al mondo ed al mistero della pittura di Tofanelli è quello che traspare da un racconto di Antonio Tabucchi ispirato proprio ad una sua opera, in cui la “lettura” del quadro diviene una realtà sospesa, ignota, forse mai esistita, a metà fra il sogno e la musica.
Da “Racconti con figure” di Antonio Tabucchi, Sellerio Editore, Palermo, 2011
Prefazione:
“Spesso la pittura ha mosso la mia penna. Se in un lontano pomeriggio del 1970 non fossi entrato al Prado e non fossi rimasto “prigioniero” davanti a Las Meninas di Velazques, incapace di uscire dalla sala fino alla chiusura del museo, non avrei mai scritto Il gioco del rovescio. Lo stesso vale per l’enorme suggestione provata da bambino davanti agli affreschi del Convento di San Marco, rivisitati spesso da adulto, che un bel giorno ritornò con prepotenza sbucando nelle pagine de I volatili del Beato Angelico”.
Dalla suggestione di un’immagine, soprattutto dalla pittura, nascono questi racconti di Tabucchi. Ma a sua volta il racconto sembra catturare in un’altra dimensione le figure che lo provocano: è quella contea fantastica dove, come scrisse Leopardi, “l’amina immagina quello che non vede”. Così le figure sembrano risvegliarsi dalla loro immobilità, acquistano vita, da immagini diventano personaggi e interpreti delle loro storie…
Una finestra sull’ignoto
(scritto per l’opera “Presto o tardi” di Alessandro Tofanelli)
Perché era andato ad abitare lì? Non lo sapeva. O meglio, lo sapeva. A causa di un paesaggio che gli avrebbe fatto abbandonare l’inquietudine: grandi spazi, campagne, silenzi, le case di una volta, quando le case erano case e dentro, con le persone, c’erano gli arnesi, gli attrezzi, tutto quello che serviva alla vita di ogni giorno e che si svolgeva intorno, vicino alle case dove si stava.
Però un giorno era venuto l’architetto, un suo amico, bravo architetto nelle grandi città dove si costruiscono grandi edifici di vetro e di acciaio, bellissimi a vedersi, e gli aveva detto: “ Questa è una parete che ti nasconde il paesaggio, devi aprirci una finestra, sarà come un quadro dentro la tua casa, ma un quadro naturale nella cui cornice accogli la natura, perché la natura devi lasciarla entrare dalle finestre, non puoi vietarla con un muro”. E disegnando con il gesto delle braccia un’immaginaria finestra in quella parete di cucina dove c’erano le mensole con il sale e il pepe e l’olio e le pentole appese a un chiodo, aveva continuato: “Via tutto questo vecchiume, lo sposti nella madia o nella credenza: sotto la finestra ti ci faccio una mensola di travertino, ci posi una ciotola, due mele o due arance, come se fosse un piccolo altare di campagna, un’umile natura morta che accompagna la maestosa umiltà del paesaggio”.
E lui aveva osato replicare: “No, di travertino no, ti prego, non voglio del travertino in casa mia”.
“D’accordo” aveva risposto l’architetto, “te lo faccio in gesso, e te lo dipingo in falso travertino, in modo che si veda bene che è un modesto gesso da contadini che vorrebbe essere travertino. E a questa finestra non ti ci metterò né ante né persiane, tanto è a nord e il sole, che qui è feroce, non ti batterà sul tavolo in maniera troppo violenta, ma potrai vedere il crepuscolo, perché d’estate, quando la notte scende e la calura si smorza, qui il cielo diventa cobalto, le chiome degli alberi si accendono di un verde insolito, hai notato che strano tipo di verde assumo questi alberi? Il verde è un colore composto, per farlo ci vogliono il giallo e l’azzurro, le foglie perdono l’azzurro e gli resta un giallo che le prime ombre notturne punteggiano di scuro, come se fossero mappe di ignote geografie. L’ideale sarebbe lasciarla, questa finestra, aperta all’aria e ai venti, come se il suo interno senza soluzione di continuità arrivasse nell’esterno e l’accogliesse. E tu bevendo un bicchiere e preparando la tua cenetta mentre ascolti musica, perché so che mentre ti prepari la cena, ascolti musica, non hai più una parete davanti a te, ma l’apertura su ciò che ti circonda.
Questo sarebbe l’ideale, ma anche i più alti desideri dell’architettura hanno un limite, anche qui arriverà l’inverno, ti entrerebbe la pioggia e il vento, e dunque, per ovviare, ci metterei un foglio di plexiglas, neppure due centimetri, ma così impercettibile, come lo fanno ora che sembra aria, e ti assicuro che a volte sarai tentato addirittura di mettere la mano fuori per sentire il fresco della sera.
A proposito, cosa ti piacerebbe ascoltare, mentre bevi un bicchiere di vino e ti prepari uno spaghetto, prima di affrontare la notte e i tuoi pensieri che sul foglio bianco si trasformano in parole?”.
“Dipende”, aveva risposto lui, “di solito Mozart, ma anche Chet Baker, soprattutto quando canta con quella sua voce roca e sussurrata, mi calma l’inquietudine, mi fa da ninnananna e mi tranquillizza, anche perché strascica talmente le parole che non le capisco, sembra una nenia antica, poi attacca con la tromba in sordina e ti porta via”.
Stava calando la sera, il cielo si era fatto di cobalto, gli alberi si stavano tingendo di giallo, come se il verde delle foglie fosse caduto all’improvviso. Lui si stava preparando uno spaghettino con dei pioppini che aveva raccolto nel tronco di un albero, con un pizzico di caprifoglio e pecorino locale, mise il disco di Chet Becker, alzò gli occhi e vide la casa dietro la sua. E’ una casa abbandonata, gli aveva detto il proprietario, una volta ci abitava una famiglia di contadini venuta ai tempi delle alluvioni del Polesine, ma erano morti tutti da anni.
Le finestre al piano superiore erano accese, una più grande e d una più piccola che doveva essere la finestra della soffitta. E sulla facciata una luce triangolare disegnava un’illuminazione di esatta geometria, come se vi fosse proiettata, perché lampioni non se ne vedevano. E sull’angolo della casa c’era una ruota appoggiata alla parete che sembrava la ruota posteriore di una bicicletta. E poi gli parve di vedere un’ombra che svicolava dietro l’angolo della casa e entrava nel buio, ma di questo non fu sicuro, forse era stata la sua immaginazione. Allora si avvicinò alla finestra, e d’istinto tentò di mettere la mano fuori, come per fare un cenno a qualcuno che non c’era o toccare semplicemente l’aria dall’esterno. Ma la sua mano urtò contro il plexiglas. Vi appoggiò il palmo e subito lo ritirò. Sul plexiglas restò per un attimo l’impronta del suo sudore. Spense la musica e si mise in ascolto. Pensò a com’era strano guardare la realtà che ci circonda come se sessa fosse a portata di mano e pensò che niente è a portata di mano, soprattutto quello che vedi, e che a volte ciò che è accanto è più lontano di quello che pensi. Pensò anche di telefonare al suo amico architetto, ma forse certe cose non si possono dire per telefono, è meglio scriverle, altrimenti sembrano insensate. Meglio un biglietto. Mi hai aperto una finestra sull’ignoto, gli avrebbe scritto. Ma lo avrebbe scritto domani.
Nato a Viareggio nel 1959, si diploma nel 1977 presso l’Istituto d’Arte di Lucca ed in seguito frequenta l’Accademia d’Arte di Brera a Milano.
Tofanelli nasce come pittore ed ha esposto ed espone tuttora in importanti gallerie italiane ed estere.
Premi vinti: nel 1975 vince il premio “La resistenza in Lucchesia” (il dipinto si trova nella Galleria di Arte Moderna di Lucca) e il primo premio “Concorso INATouring” a Palazzo Strozzi di Firenze. Nel 1984 vince il premio “Giotto d’Oro”, nel 1987 vince il premio “Onda Verde”a Firenze e il premio internazionale “ Ibla
Mediterraneo”.
Alessandro Tofanelli è però anche uomo di cinema e di televisione.
In ambito cinematografico è del 2012 il suo ultimo lavoro, il film : "Il segreto degli alberi", da lui scritto e diretto. Il film è stato presentato a Viareggio all’Europa Cinema e a Tofanelli in quell’occasione è stato consegnato il Premio Monicelli.
Mentre è del 2006 il premio speciale della giuria al festival Europacinema e la vittoria del Festival Nice, di New York e San Francisco per Il film, da lui scritto e diretto, intitolato “Contronatura”. In ambito televisivo, a partire dal 1983, Tofanelli ha collaborato con le trasmissioni televisive della Rai: “Geo” – Rai Tre, “Linea verde”- Rai Uno, “Quark”- Rai Uno, “Giorno di festa”- Rai Due.
Ha collaborato anche con la BBC per il “Natural history unit”.
Diversi i critici che hanno scritto sul suo lavoro; infatti usando le parole di Antonella Serafini: “Alessandro Tofanelli, pittore ma anche uomo di cinema e di televisione, cammina nel paesaggio sin dalla nascita. Il grande parco di Migliarino è stato il luogo della sua infanzia, quello dove ha scelto di porre la sua dimora e, prima ancora che soggetto della sua pittura, è stato ed è tuttora, oggetto dei suoi documentari, nonché protagonista principale dei suoi film”.
Oppure prestando attenzione alle righe scritte per lui da Silvano Ambrogi:
“L’indeterminatezza dello spazio e del tempo è propria quindi sia dei quadri nei quali sono stati rappresentati solo elementi naturali o di paesaggio, sia dei quadri in cui compare una figura umana, e dice a noi che guardiamo che quello spazio e quel tempo che stiamo osservando sono di esclusiva proprietà di chi il quadro lo ha dipinto. È questo un altro modo per rappresentare il legame assoluto che lega il pittore Alessandro Tofanelli ai luoghi che dipinge, un modo che non passa semplicemente per la loro riproduzione naturalistica, ma passa attraverso la capacità di rendere quei luoghi estranei alle vicende del quotidiano”.
Ma forse quello che più emoziona ed avvicina al mondo ed al mistero della pittura di Tofanelli è quello che traspare da un racconto di Antonio Tabucchi ispirato proprio ad una sua opera, in cui la “lettura” del quadro diviene una realtà sospesa, ignota, forse mai esistita, a metà fra il sogno e la musica.
Da “Racconti con figure” di Antonio Tabucchi, Sellerio Editore, Palermo, 2011
Prefazione:
“Spesso la pittura ha mosso la mia penna. Se in un lontano pomeriggio del 1970 non fossi entrato al Prado e non fossi rimasto “prigioniero” davanti a Las Meninas di Velazques, incapace di uscire dalla sala fino alla chiusura del museo, non avrei mai scritto Il gioco del rovescio. Lo stesso vale per l’enorme suggestione provata da bambino davanti agli affreschi del Convento di San Marco, rivisitati spesso da adulto, che un bel giorno ritornò con prepotenza sbucando nelle pagine de I volatili del Beato Angelico”.
Dalla suggestione di un’immagine, soprattutto dalla pittura, nascono questi racconti di Tabucchi. Ma a sua volta il racconto sembra catturare in un’altra dimensione le figure che lo provocano: è quella contea fantastica dove, come scrisse Leopardi, “l’amina immagina quello che non vede”. Così le figure sembrano risvegliarsi dalla loro immobilità, acquistano vita, da immagini diventano personaggi e interpreti delle loro storie…
Una finestra sull’ignoto
(scritto per l’opera “Presto o tardi” di Alessandro Tofanelli)
Perché era andato ad abitare lì? Non lo sapeva. O meglio, lo sapeva. A causa di un paesaggio che gli avrebbe fatto abbandonare l’inquietudine: grandi spazi, campagne, silenzi, le case di una volta, quando le case erano case e dentro, con le persone, c’erano gli arnesi, gli attrezzi, tutto quello che serviva alla vita di ogni giorno e che si svolgeva intorno, vicino alle case dove si stava.
Però un giorno era venuto l’architetto, un suo amico, bravo architetto nelle grandi città dove si costruiscono grandi edifici di vetro e di acciaio, bellissimi a vedersi, e gli aveva detto: “ Questa è una parete che ti nasconde il paesaggio, devi aprirci una finestra, sarà come un quadro dentro la tua casa, ma un quadro naturale nella cui cornice accogli la natura, perché la natura devi lasciarla entrare dalle finestre, non puoi vietarla con un muro”. E disegnando con il gesto delle braccia un’immaginaria finestra in quella parete di cucina dove c’erano le mensole con il sale e il pepe e l’olio e le pentole appese a un chiodo, aveva continuato: “Via tutto questo vecchiume, lo sposti nella madia o nella credenza: sotto la finestra ti ci faccio una mensola di travertino, ci posi una ciotola, due mele o due arance, come se fosse un piccolo altare di campagna, un’umile natura morta che accompagna la maestosa umiltà del paesaggio”.
E lui aveva osato replicare: “No, di travertino no, ti prego, non voglio del travertino in casa mia”.
“D’accordo” aveva risposto l’architetto, “te lo faccio in gesso, e te lo dipingo in falso travertino, in modo che si veda bene che è un modesto gesso da contadini che vorrebbe essere travertino. E a questa finestra non ti ci metterò né ante né persiane, tanto è a nord e il sole, che qui è feroce, non ti batterà sul tavolo in maniera troppo violenta, ma potrai vedere il crepuscolo, perché d’estate, quando la notte scende e la calura si smorza, qui il cielo diventa cobalto, le chiome degli alberi si accendono di un verde insolito, hai notato che strano tipo di verde assumo questi alberi? Il verde è un colore composto, per farlo ci vogliono il giallo e l’azzurro, le foglie perdono l’azzurro e gli resta un giallo che le prime ombre notturne punteggiano di scuro, come se fossero mappe di ignote geografie. L’ideale sarebbe lasciarla, questa finestra, aperta all’aria e ai venti, come se il suo interno senza soluzione di continuità arrivasse nell’esterno e l’accogliesse. E tu bevendo un bicchiere e preparando la tua cenetta mentre ascolti musica, perché so che mentre ti prepari la cena, ascolti musica, non hai più una parete davanti a te, ma l’apertura su ciò che ti circonda.
Questo sarebbe l’ideale, ma anche i più alti desideri dell’architettura hanno un limite, anche qui arriverà l’inverno, ti entrerebbe la pioggia e il vento, e dunque, per ovviare, ci metterei un foglio di plexiglas, neppure due centimetri, ma così impercettibile, come lo fanno ora che sembra aria, e ti assicuro che a volte sarai tentato addirittura di mettere la mano fuori per sentire il fresco della sera.
A proposito, cosa ti piacerebbe ascoltare, mentre bevi un bicchiere di vino e ti prepari uno spaghetto, prima di affrontare la notte e i tuoi pensieri che sul foglio bianco si trasformano in parole?”.
“Dipende”, aveva risposto lui, “di solito Mozart, ma anche Chet Baker, soprattutto quando canta con quella sua voce roca e sussurrata, mi calma l’inquietudine, mi fa da ninnananna e mi tranquillizza, anche perché strascica talmente le parole che non le capisco, sembra una nenia antica, poi attacca con la tromba in sordina e ti porta via”.
Stava calando la sera, il cielo si era fatto di cobalto, gli alberi si stavano tingendo di giallo, come se il verde delle foglie fosse caduto all’improvviso. Lui si stava preparando uno spaghettino con dei pioppini che aveva raccolto nel tronco di un albero, con un pizzico di caprifoglio e pecorino locale, mise il disco di Chet Becker, alzò gli occhi e vide la casa dietro la sua. E’ una casa abbandonata, gli aveva detto il proprietario, una volta ci abitava una famiglia di contadini venuta ai tempi delle alluvioni del Polesine, ma erano morti tutti da anni.
Le finestre al piano superiore erano accese, una più grande e d una più piccola che doveva essere la finestra della soffitta. E sulla facciata una luce triangolare disegnava un’illuminazione di esatta geometria, come se vi fosse proiettata, perché lampioni non se ne vedevano. E sull’angolo della casa c’era una ruota appoggiata alla parete che sembrava la ruota posteriore di una bicicletta. E poi gli parve di vedere un’ombra che svicolava dietro l’angolo della casa e entrava nel buio, ma di questo non fu sicuro, forse era stata la sua immaginazione. Allora si avvicinò alla finestra, e d’istinto tentò di mettere la mano fuori, come per fare un cenno a qualcuno che non c’era o toccare semplicemente l’aria dall’esterno. Ma la sua mano urtò contro il plexiglas. Vi appoggiò il palmo e subito lo ritirò. Sul plexiglas restò per un attimo l’impronta del suo sudore. Spense la musica e si mise in ascolto. Pensò a com’era strano guardare la realtà che ci circonda come se sessa fosse a portata di mano e pensò che niente è a portata di mano, soprattutto quello che vedi, e che a volte ciò che è accanto è più lontano di quello che pensi. Pensò anche di telefonare al suo amico architetto, ma forse certe cose non si possono dire per telefono, è meglio scriverle, altrimenti sembrano insensate. Meglio un biglietto. Mi hai aperto una finestra sull’ignoto, gli avrebbe scritto. Ma lo avrebbe scritto domani.
Nato a Viareggio nel 1959, si diploma nel 1977 presso l’Istituto d’Arte di Lucca ed in seguito frequenta l’Accademia d’Arte di Brera a Milano.
Tofanelli nasce come pittore ed ha esposto ed espone tuttora in importanti gallerie italiane ed estere.
Premi vinti: nel 1975 vince il premio “La resistenza in Lucchesia” (il dipinto si trova nella Galleria di Arte Moderna di Lucca) e il primo premio “Concorso INATouring” a Palazzo Strozzi di Firenze. Nel 1984 vince il premio “Giotto d’Oro”, nel 1987 vince il premio “Onda Verde”a Firenze e il premio internazionale “ Ibla
Mediterraneo”.
Alessandro Tofanelli è però anche uomo di cinema e di televisione.
In ambito cinematografico è del 2012 il suo ultimo lavoro, il film : "Il segreto degli alberi", da lui scritto e diretto. Il film è stato presentato a Viareggio all’Europa Cinema e a Tofanelli in quell’occasione è stato consegnato il Premio Monicelli.
Mentre è del 2006 il premio speciale della giuria al festival Europacinema e la vittoria del Festival Nice, di New York e San Francisco per Il film, da lui scritto e diretto, intitolato “Contronatura”. In ambito televisivo, a partire dal 1983, Tofanelli ha collaborato con le trasmissioni televisive della Rai: “Geo” – Rai Tre, “Linea verde”- Rai Uno, “Quark”- Rai Uno, “Giorno di festa”- Rai Due.
Ha collaborato anche con la BBC per il “Natural history unit”.
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