Photographie en pointure

© Whitelabs | Annagret Sultau

 

Dal 08 Marzo 2014 al 11 Maggio 2014

Milano

Luogo: Galleria Whitelabs

Indirizzo: via Gerolamo Tiraboschi 2/76

Orari: da martedì a venerdì 15-19; sabato su appuntamento

Curatori: Viana Conti, Nicola Davide Angerame

Telefono per informazioni: +39 348 9031514

E-Mail info: info@whitelabs.it

Sito ufficiale: http://www.whitelabs.it


Nel segno del femminile si inaugura, il 7 marzo dalle ore 18 alle 22, alla Galleria Whitelabs di Milano la mostra di Fotografia Cucita delle tre artiste mitteleuropee Stefania Beretta, Iris Hutegger, Annegret Soltau, a cura di Viana Conti con Nicola Davide Angerame. La sua particolarità risiede nell’aver accostato artiste di nazionalità diverse, rispettivamente svizzera, austriaca, tedesca, accomunate dalla fotografia con intervento di cucito a macchina, a partire, tuttavia, da motivazioni differenti. L’esito, non trascurabile, di questo particolare processo di impunturazione è che l’opera risulta, con tutte le implicazioni che comporta, non esclusa l’unicità dell’aura di memoria benjaminiana, un pezzo unico. Annunciandosi come Photographie En Pointure, il titolo della mostra prende come referente mitico di impuntura quella all’orlo delle Souliers de van Gogh, dipinto del 1886. Ma c’è dell’altro. Questo dipinto di van Gogh viene preso come esempio da Martin Heidegger nel suo saggio L'origine dell'opera d'arte. In relazione al senso con cui Heidegger intende il soggetto scarpe, sorge una vivace polemica con lo storico dell'arte e studioso dell'opera di van Gogh Meyer Schapiro. Ad una così acuta e stimolante disputa non manca di associarsi il filosofo francese Jacques Derrida, prendendo una posizione critica verso le tesi di Heidegger nel suo testo La verità in pittura, divenuto poi Restitutions. - De la vérité en pointure. Questa sottile variazione derridiana del termine pittura in puntura si attaglia perfettamente alla forma di fotografia esposta, che viene impunturata, dalle tre artiste, con la punta dell’ago della macchina da cucire. La presenza del filo non cessa di rinviare alle metafore della tessitura come espressioni della marginalità del lavoro femminile, f!acendo affiorare dal mito figure della cultura occidentale come Arianna, Aracne, Ananke, Penelope.
In Stefania Beretta (nata a Vacallo, Ticino, nel 1957, vive a Verscio, Svizzera) l’idea del Paesaggio improbabile scaturisce dall’incontro di due inconsci macchinici: quello dell’apparecchio fotografico e quello della macchina da cucire. Attraverso il filtro visivo dell’artista, la mediazione della macchina fotografica e di quella da cucire, attraverso i segni impunturati sulla pelle della stampa analogica, della stessa sua pelle, ferita e rimarginata, l’autrice formalizza una nuova realtà, fatta di una scrittura di sogni e incubi, di fili di perle iridescenti e di spine acuminate, di riflessioni e di emozioni provenienti dal profondo. Brighton, Seven Sisters, Dover, Bogliasco, un bosco, sono solo nomi, appunti della memoria, echi di risonanze nel vuoto, ritmate dallo scorrere del tempo, che ritornano come fantasmi, che perdono le identità del luogo d’origine per acquisire connotazioni mentali scaturite da un immaginario senza barriere geografiche o linguistiche, aperto al contrario all’interiorità del soggetto, alle fascinazioni naturali, materiche, dell’ambiente, di una terra in cui scorre una vita segreta. Stefania Beretta, dedita al viaggio in India, come sospensione temporanea della vita d’azione in Occidente per entrare in quella della meditazione in Oriente, trasmette nell’opera la dimensione intima di un rituale che diventa, nel racconto visivo, partecipazione, memoria e testimonianza. I piani verticali e orizzontali di una cattedrale dove l’immaginazione sale, scende, staziona, inventano un percorso di impunture, sinesteticamente armoniche e melodiche, che agiscono come un trait d’union tra il cielo e la terra, tra il visibile e l’invisibile. 

Nel processo operativo di Iris Hutegger (nata nel 1964 a Schladming in Austria, vive e lavora a Basilea, Svizzera) lo scatto analogico sul paesaggio, prevalentemente di alta montagna - figura dell’origine, di una visione primaria, per l’artista – è finalizzato alla tensione tra un primo contatto con la realtà e la successiva ricostruzione di una dimensione astratta e atemporale dello scenario di natura. Chi non ricorda, in montagna, le fioriture dei rododendri, i verdi vellutati dei muschi, quelli azzurrati dei licheni? È creando un vuoto, un’assenza, che questa artista mette in moto la memoria emozionale dell’osservatore, attiva effetti di riconoscimento di luoghi costruiti dalla mano, dalla mente, dalla cultura. Alla fase iniziale di ordine analogico, in cui l’artista utilizza il negativo a colori, segue l’ingrandimento, quindi la scelta di stampa su carta in bianco e nero, e, anche a distanza di tempo, l’intervento strutturale, in rilievo, di una tessitura di fili colorati, realizzata con la macchina da cucire. Una cornice neutra, infine, riveste la funzione di una finestra aperta sull’immaginario dell’autore e dello spettatore. Identificandosi tramite un codice, l’opera si depriva di qualsiasi titolo narrativo e di ogni riferimento all’uomo e alla debordiana società dello spettacolo. L’impuntura scritturale di fili colorati sul dispiegarsi di un paesaggio in bianco e nero ricrea un seducente labirinto di segni in cui un luogo di montagna può assimilarsi, paradossalmente, ad un deserto, in cui un osservatore è indotto a riconoscere sentieri mai visti. Si percepisce nel lavoro di questa artista, accanto ad una pulsione costruttivo/decostruttiva, l’esperienza di una perdita emorragica di reale a vantaggio dell’acquisizione di una visione seconda, di un doppio simulacrale. 

Nell’opera dell’artista tedesca Annegret Soltau (nata nel 1946 a Lüneburg, vive a Darmstadt, Germania) l’arte femminista degli anni Settanta/Ottanta trova un ineludibile referente. Significativo è, nell’articolato percorso del suo lavoro, il ciclo di fotografie cucite, selezionato per la mostra e intitolato Selbst/Io, appartenente giusto agli anni 1975-1976. Artista attiva sull’area di segno, grafica, performance, fotografia, cucitura con il filo (trascrizione tridimensionale del segno grafico, bidimensionale, degli inizi), collage, videoinstallazione, videoproiezione, ricorre al suo corpo ed alla sua immagine, mobile o immobile, come strumento di espressione, rappresentazione, provocazione. Negli anni, il suo volto si trasforma, metaforicamente, in lettere, numeri, dati, documenti di carta (identità, passaporto, conto in banca, bancomat, fattura del dentista). Pratica sovente l’ibridazione del corpo umano con corpi altri, attingendo anche alla fisiognomica del suo albero genealogico, restituito in una visione caleidoscopica. Nei suoi video il corpo viene ripreso come un paesaggio da cui scaturisce la vita, in cui si riafferma l’origine, la familiarità, il desiderio di distanza e di autonomia, ma anche la differenza, l’alterità. In Selbs l’artista, dopo aver avvolto, come in un bozzolo, il suo viso con il filo teso di seta nera, ne realizza una documentazione fotografica che, in una fase successiva, viene impunturata seguendo un reticolo di segno tendenzialmente geometrico. Ne scaturisce un autoritratto autolesivo, un’effige impedita,  inibita, costretta al silenzio. Annegret Soltau scrive sulla pagina bianca del suo volto la sua storia di donna, una storia di conflitti, di pulsioni reattive all’ambiente familiare, alla posizione marginale della donna nel contesto sociale, alle pressioni e discriminazioni di genere. Quel filo, che preme sulla pelle sensibile del suo viso, mentre da una parte ne sfigura la forma dall’altra ne esalta la bellezza. 


 

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