Paolo La Motta. Capodimonte incontra la Sanità

Paolo La Motta, Diego, 2020, olio su tavola, inv. Q 1941. Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli. Opera donata al museo da Premio GreenCare Aps, grazie al suo associato Gianfranco D’Amato

 

Dal 18 Febbraio 2021 al 19 Settembre 2021

Napoli

Luogo: Museo e Real Bosco di Capodimonte

Indirizzo: Via Miano 2

Orari: dal lunedì al venerdì 10.00-17.30; ultimo ingresso 17.00

Curatori: Sylvain Bellenger e Maria Tamajo Contarini

Enti promotori:

  • Con il sostegno della Regione Campania

Telefono per informazioni: +39 081 7499111

E-Mail info: mu-cap@beniculturali.it

Sito ufficiale: http://www.museocapodimonte.beniculturali.it


“Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano” Antoine de Saint-Exupery “A  voi, ragazzi, affido l’Illusione. Giocate, e giocate contro: non morirete” don Giuseppe Rassello  Il rione Sanità si mostra in tutta la sua forza e la sua bellezza negli occhi e nei volti dei suoi figli più giovani e fragili: bambini e ragazzi dipinti e scolpiti da Paolo La Motta, artista che vive e lavora nel quartiere.
Grazie alla sua vasta cultura visuale e alla profonda conoscenza della tecnica scultorea e pittorica, La Motta riesce a far emergere l’anima di questi ragazzi, la loro angoscia, le loro speranze, i loro sogni, instantanee di un’infanzia spesso aspra e quasi sempre troppo breve.
Questi volti scrutati, amati, rispettati e poi fermati nella terracotta o modellati attraverso una pittura corposa e plastica, saranno esposti nella sezione arte contemporanea del Museo e Real Bosco di Capodimonte nel corso della mostra Paolo La Motta. Capodimonte incontra la Sanità, a cura di Sylvain Bellenger e Maria Tamajo Contarini, promossa e organizzata dal Museo e Real Bosco di Capodimonte in collaborazione con l’associazione Amici di Capodimonte Ets e realizzata grazie al sostegno della Regione Campania, con fondi europei Poc-Programma operativo complementare 2014-2020, su progetto di allestimento dell’architetto Lucio Turchetta e coordinamento di Maria Flavia Lo Regio.
Nell’esposizione sono riuniti ventitré dipinti, nove sculture e il polittico Genny.

La mostra
L’esposizione si pone in collegamento con l’altra mostra che l’artista ha tenuto al Museo: Incontri sensibili: Paolo La Motta guarda Capodimonte (30 giugno 2018 – 24 febbraio 2019) nell’ambito del ciclo di mostre-focus che ospitano artisti contemporanei in dialogo con la collezione storica di Capodimonte, in una sala dedicata al secondo piano.
Paolo La Motta è un artista fuori dal sistema dell’arte contemporanea, e da tutti i sistemi. Non è rappresentato da nessuna galleria e non specula sui social network o sul mercato.
Rappresenta un “movimento” molto personale, il suo, che unisce una profonda e vasta conoscenza dell’arte – arte di tutti i tempi e di tutti i luoghi – a cui rende costantemente omaggio con passione, con uno sguardo attento e penetrante sulla realtà.
Proust dialoga con Balzac come Joyce dialoga con Flaubert, o Edward Hopper con Marquet, Felix Vallotton e Picasso.
La Motta è un pittore che testimonia una storia dell’arte che non è solo quella della rottura, appartiene a questa storia discreta che, parallelamente alle avanguardie, si è sempre mantenuta, più sotterranea, distaccata dagli investimenti finanziari e dal pensiero dominante.
Questa storia che nel XX secolo è illustrata da Zoran Mušič, Avigdor Arikha, Raymond Mason, Balthus, Lucian Freud, Sam Szafran, e più recentemente Éric Desmazières, Jean-Baptiste Sècheret e tanti altri ancora, non ripete la pittura di ieri e ci invita ancora a vedere il mondo in modo diverso senza voltare le spalle al realismo o meglio senza opporsi all’astrazione e alla figurazione, un’opposizione che la contemporaneità ha da tempo reso abbastanza obsoleta.
Paolo La Motta raffigura nelle sue opere i ragazzi dei quartieri popolari Stella, Sanità e Vergini con cui organizza i laboratori di scultura all’Istituto Papa Giovanni XXIII.
Le loro storie, spesso vicende di disagio e di un’infanzia troppo presto abbandonata, perdono la collocazione spazio temporale per diventare archetipi assoluti.
E così scorrono davanti ai nostri occhi l’intensità, la curiosità, la malinconia, l’ansia, l’impegno e la serietà e nello stesso tempo i valori plastici della pittura italiana e le campiture uniformi dei fondi dell’arte giapponese, la materica pittura di Ribera e Mancini e le fluide pennellate di Lucian Freud; ma anche i giovinetti di Gemito e i modellati metamorfici di Augusto Perez, maestro di La Motta, e di Giovanni Tizzano, artista che è una continua fonte di ispirazione per Paolo.

Genny 
Tra tanti volti quello tristemente noto di Genny Cesarano, a cui La Motta aveva dedicato nel 2007 il  polittico Genny fissando quattro pose della testa, quattro punti di vista, il volto, il collo e i due profili e concludendo l’opera in una terracotta a tutto tondo.
La struttura in ferro che sostiene la scultura ha le stesse dimensioni delle tele e uno specchio che permette di poterne osservare il retro e al tempo stesso riflette l’immagine dell’osservatore, che ne è così spettatore ed anche “protagonista” dell’opera, l’unica di Paolo La Motta in cui scultura e pittura convivono.
Genny Cesarano fu ucciso nella notte tra il 5 e 6 settembre 2015, in piazza Sanità durante uno scontro fra bande rivali, ennesima vittima innocente della camorra in un quartiere martoriato.
La sua morte così innaturale e ingiusta ha provocato una sana reazione nel quartiere contro quella malavita che da tempo lo tiene soggiogato in una morsa asfissiante.
Padre don Antonio Loffredo, parroco della Chiesa di Santa Maria della Sanità (popolarmente nota come Chiesa di San Vincenzo Ferrer, detto ‘o Munacone) ha guidato la reazione di un quartiere che faticosamente, giorno dopo giorno, prova a rialzare la testa.
E così, proprio in quella piazza dove ha perso la vita, Genny è rinato grazie a una scultura realizzata da Paolo La Motta che aveva conosciuto il ragazzo qualche anno prima nel corso di un laboratorio artistico.
L’opera è una statua in bronzo policromo che raffigura un ragazzo in bilico su due travi mentre cerca di recuperare un pallone che si è incastrato tra le assi, sulle quali ci sono le lettere tridimensionali sparse della parola ‘Sanità’, accanto alle quali una “T” incisa introduce un ulteriore significato, quello della “Santità”, riferito al drammatico destino di Genny.
La scultura, donata dalla Fondazione di comunità San Gennaro, si chiama In-ludere ovvero ‘giocare contro’. Opporre cioè all’inevitabile l’imprevedibile e accettare le sfide del destino affrontando la realtà.
In quel pallone incastrato tra le assi, inoltre, si racchiude tutto l’urlo dei bambini e dei ragazzi della Sanità che chiedono solo di poter giocare liberi e vivere serenamente l’infanzia e l’adolescenza.
Con il polittico Genny, la storia di questo ragazzo e di un intero quartiere, entra nel museo e vi rimarrà stabilmente.
Grazie al sostegno del mecenate Gennaro Matacena, infatti, l’opera è stata acquisita alle collezioni del Museo.

Maradona
L’ultima tela dipinta dall’artista, visibile in mostra, è Diego: un olio su tavola di piccole dimensioni (25×30 cm) raffigurazione del campione Diego Armando Maradona da bambino, donato al Museo dall’Associazione Premio GreenCare Aps con il socio sostenitore Gianfranco D’Amato.
L’opera si lega idealmente ai due campetti di calcio realizzati nel Real Sito, per favorire il legame tra i giovani napoletani, esaltare il valore sociale del Bosco e intercettare nuovi pubblici nel Museo, come sottolinea un breve video con testi di Benedetta de Falco e voce narrante dello scrittore Maurizio De Giovanni.
Occhi quasi socchiusi, fronte corrucciata, smorfia e nell’insieme l’espressione del volto che lancia un grido disperato al mondo.
È il bambino e futuro Pibe de Oro che vive a Riva Fiorita in una quasi baraccopoli.
Quell’immagine inedita ha colpito la sensibilità artistica di Paolo La Motta che, a poche ore dalla scomparsa del grande campione argentino avvenuta il 25 novembre 2020, tanto amato a Napoli per i suoi gol e la sua umanità.
In quello sguardo malinconico, Paolo La Motta, ha colto lo sguardo di chi vive ai margini, lo sguardo degli ultimi tra ultimi, lo sguardo degli scugnizzi di Napoli, lo sguardo dei figli del suo amato Rione Sanità.
La Motta utilizza solo tre colori: ocra gialla, terra di Siena bruciata e blu oltremare; uno studio sulle tonalità che da tempo l’artista approfondisce e sperimenta.
Non c’è disegno preparatorio, la pittura è diretta e spontanea e le pennellate, sovrapponendosi, costruiscono l’immagine.
La Motta si concentra sul volto del bambino argentino, timido ma penetrante, puntato verso l’obiettivo del fotografo.

Il documentario     A completamento della mostra e come lettura intima del lavoro dell’artista, è presente in mostra un video-documentario di 20 minuti girato in presa diretta alla Sanità, da un’idea del direttore Sylvain Bellenger, per la regia di Rossella Grasso con il coordinamento di Carmine Romano, responsabile del progetto di digitalizzazione del Museo.
L’occhio della telecamera segue La Motta nei vicoli della sua Sanità, fonte continua di ispirazione, entra con lui nel suo studio, cattura le pennellate che si posano sulla tela e le parole che le accompagnano, nonché i momenti trascorsi con i ragazzi del quartiere durante i laboratori di scultura mentre modellano l’argilla e, nello stesso tempo, la loro vita.
Fuori dalla finestra la vista di uno dei gialli e polverosi muri di tufo della Sanità: la materialità degli antichi palazzi del centro storico, un tratto distintivo delle sue ricerche pittoriche.

Il catalogo     Il catalogo della mostra, realizzato grazie al sostegno della Casa d’Aste Vincent, raccoglie i contributi e gli scritti critici del direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, Sylvain Bellenger, un testo dello scrittore Roberto Saviano sul campione Diego Armando Maradona redatto, un testo di Isabella Valente docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli Federico II, un’intervista di Maria Tamajo Contarini a Paolo La Motta, una biografia dell’artista e due schede a cura di Maria Flavia Lo Regio delle opere donate al Museo: Diego e il polittico Genny.

Paolo La Motta
Napoli, 1972
Paolo La Motta è un artista estraneo al sistema dell’arte contemporanea, non è legato a gallerie, non utilizza mediatori, la sua produzione è tutt’uno con il suo lavoro di insegnante.
Il laboratorio di ceramica all’Istituto Papa Giovanni XXIII in via Cagnazzi è un punto di riferimento per i ragazzi della Sanità.
Unisce una profonda e vastissima conoscenza dell’arte di ogni tempo e ogni luogo, che viene con passione costantemente omaggiata, a uno sguardo attento e penetrante sulla realtà in cui vive.
Appena dodicenne, nel 1984, andando a giocare a pallone nel Bosco di Capodimonte vede il manifesto della celebre esposizione Civiltà del Seicento a Napoli in corso nelle sale della Reggia.
Il manifesto raffigura il bambino impaurito e urlante della grande pala d’altare di Jusepe de Ribera San Gennaro esce illeso dalla fornace nella Cappella del Tesoro di San Gennaro.
Quel volto di bambino napoletano così antico e così moderno lo attrae.
Abbandonato il pallone, Paolo entra nel museo. Ne rimane abbagliato: in quel momento decide di diventare un pittore.
Un ragazzo adulto dei quartieri più poveri decide di diventare un artista.
È incredibile come il bambino impaurito di Ribera si ritrovi nell’arte di Gemito e poi in quella di Paolo La Motta e di tanti altri artisti che hanno vissuto a Napoli nel corso dei secoli.
Paolo La Motta nasce a Napoli nel 1972, consegue la maturità al Liceo Artistico di Napoli nel 1990, dove incontra Giuseppe Desiato, e nel 1994 conclude l’Accademia di Belle Arti diplomandosi in Scultura con Augusto Perez.
Terminati gli studi, inizia a praticare l’attività di scultore alla quale affianca quella di pittore.
Identifica l’arte come uno strumento di conoscenza e comunanza con gli esseri umani e non scinde mail il suo essere artista dall’impegno sociale.
I quartieri popolari Stella, Sanità, Vergini e Miracoli costituiscono infatti il mondo in cui l’artista vive e si è formato e che permea con i suoi volumi, materiali e colori tutta la sua produzione artistica, frutto di una terra chiusa nel suo essere borgo fuori le mura, ma aperta a tutte le contaminazioni culturali che Napoli ha sempre accolto.
Nella pittura di La Motta si ritrova la pittura materica di Ribera e Mancini e le fluide pennellate di Lucian Freud; ma anche i giovinetti di Gemito e i modellati metamorfici di Augusto Perez, maestro di La Motta, e di Giovanni Tizzano, continua fonte di ispirazione per l’artista.
A partire dal 1998 si susseguono le mostre. Spiccano alcune personali alla Mediterranea (storica galleria d’arte del Novecento napoletano), al Castel dell’Ovo, al Museo Archeologico Nazionale, al PAN (Palazzo delle Arti Napoli).
Le più importanti sono sicuramente le più recenti: le esposizioni al Museo e Real Bosco di Capodimonte nel 2018 e alla Galerie Mercier di Parigi nel 2019.
La Motta ha un particolare talento nel genere artistico così difficile e raro della ritrattistica infantile.
Sa cogliere la gravità dell’infanzia, il suo mistero, la sua ansia, la sua innocenza, un’innocenza che va oltre l’ingegno, e anche, ma non sempre, la fragilità, la durezza, una certa serenità spensierata.
I bambini della Sanità raramente beneficiano della protezione e della sicurezza necessarie all’infanzia.
La rappresentazione dell’infanzia nella pittura occidentale è un genere tardo, a parte i ritratti reali che furono realizzati per motivi dinastici, come gli Infantes della Spagna.
Ancora alla fine del Settecento, con l’Illuminismo, i bambini ritratti non erano altro che modelli o adulti rappresentati come infanti o neonati.
Il riconoscimento dell’universo psicologico e del mondo dell’infanzia nasce in Europa con gli scritti di Rousseau, L’Émile (1762) e poi Les Confessions (1782), che aprirono un campo di riflessione in cui si immersero i pedagogisti del XIX secolo ma soprattutto quelli del XX secolo.
Accanto ai volti di bambini alle figure di uomini e donne, dipinte e scolpite, Paolo La Motta ama le architetture, a volte scorci, a volte forme compiute, con gli spigoli dei muri illuminati da una luce che esalta i volumi e che avevano colpito il grande vedutista settecentesco Thomas Jones durante il suo Grand Tour a Napoli.
 
 

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