Quando l’arte diventa un libro cult

Luigi Serafini e il Codice della fantasia

Luigi Serafini, Immagine tratta dal Codex Seraphinianus | Foto: © Francesca Pellegrino
 

Francesca Grego

12/04/2020

Il Codex Seraphinianus è entrato nella mia vita quasi di soppiatto, col vestito innocuo di un regalo di Natale. E non mi ha più lasciata. Tra una fetta di panettone e un sorso di spumante, creature bizzarre e invenzioni visionarie mi salutarono dai suoi fogli di grande formato. Sembravano essere lì per dire: in qualunque mondo tu viva, ci sarà sempre spazio per la fantasia. Uomini-fungo, alberi come olive denocciolate, ombrelli con le gambe sembravano spuntare da una versione contemporanea e sorniona del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch, o da Metamorfosi ancor più ardite di quelle concepite da Escher. L’autore del dono mi informò con un sorriso di trionfo che si trattava di un libro cult, introvabile da anni e finalmente ristampato. Un’enciclopedia dell’impossibile, dove immagini francamente assurde, disegnate e colorate con somma cura, si accompagnavano a testi scritti in un alfabeto immaginario privo di legenda. Animali, piante, minerali, ma anche esseri umani, cibi, abiti, architetture, macchine mai viste erano gli oggetti di un’indagine surreale, che applicava l’ordine tassonomico della scienza a un universo folle. Insomma, una burla capace di portare lontano, oltre i  confini di ogni pretesa realtà.



Oggi che il Codex è una cosa seria - un bestseller stampato in sette paesi del mondo, un oggetto del desiderio per le sconfinate platee del web, un unicum artistico studiato nelle accademie e nelle università - la sua giocosa ironia sembra quasi essere passata in second’ordine. In compenso, dopo aver invaso le piazze dei social, i suoi fantasmagorici organismi colonizzano i territori del corpo e viaggiano intorno al globo in un nuovo formato, quello del tatuaggio. I pesci-occhi che ammiccano a pelo d'acqua e gli amanti che si trasformano in un coccodrillo sono forse gli esempi più popolari, oltre alle variazioni sui temi dello scheletro, dell’uovo o dell’arcobaleno che tanto piacquero a Italo Calvino. Sono in pochi a conoscere l’origine di questi segni misteriosi. E anch’io chi fosse Luigi Serafini, che cosa facesse quando non creava chimere, me lo sono chiesto dopo che il Codex lo avevo già spolpato a dovere. Questo è quanto ho scoperto. 

Architetto, artista, designer, Serafini fu inizialmente un bambino-matita, di quelli che invece di parlare disegnano. Da grande ha lavorato per il collettivo Memphis di Ettore Sottsass, ideato sedie per Sawaya & Moroni, vetri e lampade per Artemide, ha disegnato locandine per Federico Fellini, scenografie per la Scala, sculture e installazioni da Napoli alla Svizzera e, naturalmente, libri illustrati. Ma all’origine di tutto questo c’è un’opera prima che ha fatto innamorare Calvino e Roland Barthes e, in tempi più recenti, ha folgorato anche Tim Burton.

Siamo alla metà degli anni Settanta e il ventisettenne Serafini torna a Roma da un vagabondaggio che l’ha condotto da Babilonia al Congo, ma soprattutto nell’America degli hippie e della Beat Generation. Si ritrova ancora una volta con i pastelli tra le mani, carico di impressioni nuove e di una gran voglia di comunicare. All’inizio sono disegni isolati, “corpi umani ibridati con protesi a forma di pinza, ruote di bici e penna stilo”, per esempio. Poi una sera un amico lo invita al cinema e lui senza pensarci risponde che non può, perché è impegnato a “scrivere un’enciclopedia”. È l’inizio di tre anni da eremita e amanuense visionario. 



Serafini riempie album su album, in compagnia di una gatta bianca che gli si piazza sul collo “a diretto contatto con l’ipofisi”, diventando una fonte inesauribile di fantasie. “L’idea dell’enciclopedia, dell’elenco telefonico, sono forse cose innate”, ha spiegato l’autore del Codex in un incontro all’Accademia di Belle Arti di Bologna: “Sono cose che mentre le fai ti accorgi che vengono da strutture psichiche di cui non sei autore. Vai avanti da un concetto all’altro, parti dai batteri, poi pensi alle piante, poi ai pesci”. C’è chi ha accostato i suoi processi alla scrittura automatica dei surrealisti, chi al metodo paranoico-critico di Dalì. Ma Serafini va oltre e alle immagini aggiunge la grafia asemica che diventerà un marchio di fabbrica: caratteri simili a quelli del cirillico, o del georgiano come osserva lui stesso, ma privi di suono e di significato, dunque illeggibili. “Volevo portare in libreria una specie di alieno, un libro che fosse in grado di rendere tutti analfabeti, e quindi potenziali lettori. Tutti stanno di fronte al Codex come dei bambini che devono imparare a leggere. Quel momento magico e mitopoietico nel quale la fantasia si libera imitando gli adulti che leggono cose incomprensibili. Quindi dalle figure partono delle narrazioni”. 

L’alieno arriva in libreria nel 1981 grazie all’incontro con Franco Maria Ricci, editore sui generis che pubblica Borges e Cortàzar sognando di costruire un labirinto. Sarà Calvino a presentare i due volumi del Codex in un saggio sulla rivista FMR, poi inserito nella raccolta Collezione di Sabbia, e in questo modo la fama del volume si diffonderà nei circoli della cultura. Più tardi attirerà l’attenzione di critici come Federico Zeri, Vittorio Sgarbi e Achille Bonito Oliva. 
Negli anni Duemila il Codex Seraphinianus ha conosciuto una nuova vita grazie al tam tam sul web. L’autore ha dichiarato più volte: “Se lo pubblicassi adesso, il Codex sarebbe un blog”.  Racchiusa in 350 pagine a colori, l’edizione attuale è pubblicata da Rizzoli in versione economica e deluxe ed è accompagnata dal Decodex, in cui Serafini racconta la genesi dell’opera. È un libro da sfogliare per viaggiare con la mente e prendersi una vacanza nei lembi più estremi dell'immaginazione. Per poi soffermarsi su ogni singolo disegno, “leggendo” non più di due, tre tavole al giorno, come fossero poesie: concedere loro il tempo di risuonare saltando tra immagini e sinapsi, gemmare come nuovi organismi, ibridarsi con gli abitanti dell’altrove nascosto in ognuno di noi.  


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