Una mostra organizzata da GaMEC, EMST e Hermitage in occasione della 57. Esposizione Internazionale d'Arte

Il binomio impossibile di Jean Fabre a Venezia

Jean Fabre, Planets I-IX (2011) - detail © courtesy of Jean Fabre "Glass and Bone Sculptures" - Abbazia di San Gregorio
 

P.M.

11/05/2017

Venezia - Nove sfere di vetro aperte a semicerchio galleggiano sospese nel cuore della stanza.
Siamo al primo piano dell'Abbazia di San Gregorio, un edificio gotico che si affaccia all’ingresso del Canal Grande a Venezia, incastonato tra l’ex-Chiesa di San Gregorio e il contiguo palazzo Genovese. Alla finestra della stanza, appare la quinta della Basilica della Salute. E miracolosamente piccolo, più in fondo, Damien Hirst traguarda lo sguardo con la sua esposizione a Punta della Dogana.

Nove sfere, nove mondi, nove pianeti. Ma anche nove uova pronte ad essere fecondate.
Miracolo di vetro di Murano e del minuzioso tratto a penna Bic con cui l'artista fiammingo Jean Fabre realizza molte delle sue opere.  O forse irriverente sberleffo alla grandeur dell'artista inglese che giganteggia sulla laguna veneziana nei giorni della 57. Esposizione Internazionale d'Arte a pochi passi dall'Abbazia. Anche perchè di fronte a Planet I-IX, opera del 2011, non troppo casualmente appesa al muro di fronte appare una plastica mano che stringe un cilindro nero (l'opera è Listen del 1992)

Jean Fabre torna a Venezia e arriva accompagnato da tre importanti istituzioni: il GAMeC di Bergamo, l'EMST - National Museum of Contemporary Art di Atene e The State Hermitage Museum di San Pietroburgo. In laguna Fabre, nato ad Anversa nel 1958, porta la mostra Glass and Bone Sculptures 1977-2017 e qui espone 40 sculture che ripercorrono gran parte della sua vita artistica e mettono in scena la ricerca sul binomio vita-morte, natura-artificio, durezza-fragilità.

Binomi impossibili da risolvere quelli di Fabre. Ossimori che svelano l'inestricabile dilemma del vivere umano e quindi usano come materia creativa due estremi inconciliabili, ma fragilmente tenuti insieme da Fabre: il vetro - emblema della technè umana - e al suo opposto l'osso - lo scheletòn che resiste al disfacimento del corpo.

Eppure pur dato il peso specifico del tema affrontato, Fabre riesce a rimanere insipegabilmente leggero. Le movenze dei suoi Monk, in apparenza vuoti involucri, rievocano gentilezza, poesia, non macabro memento mori, ma ironica danza e eterno simulacro eretto all'imponderabile brevità del tempo umano.

E per comprendere appieno l'eleganza dell'opera di Fabre forse val la pena, uscendo dall'Abbazia fermarsi a guardare nuovamente, nel centro del chiostro, il compimento della metamorforsi in Holy Dung Beetle with Laurel Tree (2017), l'incontro tra lo scarabeo e l'alloro. Una metafora e un'allegoria che spiegano la soluzione plausibile che l'artista ha trovato alla propria  impossibile ossessione.




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