Rito, costume, paradosso. Il cammino del pane
Dal 27 Novembre 2013 al 26 Gennaio 2014
Milano
Luogo: Spazio Oberdan
Indirizzo: viale Vittorio Veneto 2
Orari: da martedì a domnica 10-19.30; martedì e giovedì fino alle 22
Enti promotori:
- Provincia di Milano/Assessorato alla cultura
Telefono per informazioni: +39 02 77406302
E-Mail info: p.merisio@provincia.milano.it
Sito ufficiale: http://www.provincia.milano.it/cultura
Il 26 novembre si inaugura allo Spazio Oberdan della Provincia di Milanouna grande collettiva che conduce a esplorare il “cammino” del pane: un racconto fatto di segni, forme e materiali; una serie eterogenea di opere che assimila la storia del pane alle radici dell’uomo in un percorso che parte, fin dalla notte dei tempi, dalla Terra. La mostra, promossa da Provincia di Milano/Assessorato alla cultura, rientra nell’ambito del progetto pluriennale “Non di solo pane” ideato da Susanna Vallebona di SBLU_spazioalbello.
Quella che gli antichi greci chiamavano “Gea, dea della terra, madre di tutto” è una allegoria condivisa della mitologia mondiale. Assimilata alla madre, la Terra è simbolo di fecondità e di rigenerazione. Nella società agricola dei primordi, quando germoglia evoca l'immagine della donna che concepisce la vita e partorisce: uno dei misteri più affascinanti dell’esistenza. E di questo rapporto ancestrale parlano numerose opere in mostra. Dalla pagnotta “preistorica” di Lelo Cremonesi, con le tipiche figure rupestri che abbiamo classificato come le prime espressioni "d'arte" dell’uomo, alla forma di terracotta, morbida e sensuale, che evoca colline o seni di madri nutrici nell'opera di Pasquale Ninì Santoro o la madre come origine nel lavoro di Walter Valentini e di Carla Cacianti. E il grano e la farina offerti da una sorta di cordone ombelicale secondo la visione che Silvia Cibaldi ci propone con la sua installazione e il mito di Cerere e Persefone nei lavori di Mario Raciti e di Mariangela De Maria.
Generazioni di artisti a confronto e una incredibile molteplicità di linguaggio: la mostra invita a riflettere non solo sulla pluralità degli argomenti, ma anche sulla ricchezza che il contemporaneo offre nei modi della narrazione. A ognuno di noi scegliere il più congeniale.
Il percorso porta poi l’attenzione dello spettatore a una memoria perduta, come nel lavoro di Valerio Gaeti, che con legno, cenere, spine, rimanda ai culti praticati per la conservazione degli alimenti tramite la cenere. Dal nomadismo, agli insediamenti stanziali e alla emigrazione in cerca di cibo. L’insediamento stanziale offre nuove possibilità di lettura. Il pasto consumato collettivamente si arricchisce di nuovi rituali: la tavola diventa il luogo dove esprimere cultura o mettere in mostra il proprio status sociale. Non è, infatti, la tavola funzionale alla necessità di cibarsi, ma alla dimensione tutta culturale del rituale del cibo.
Spartire la mensa, accogliere alla propria tavola esprime la volontà d’intima condivisione, di partecipazione, una simbologia ben presente nella liturgia cristiana e che il lavoro di Elke Pollak, una tavola senza commensali, sottolinea per sottrazione.
Ogni oggetto usato per apparecchiare ha una sua storia e un ruolo nell’architettura della tavola. Presso i romani del II secolo a.C. l’uso della tovaglia, allora uno spesso tappeto, era un sinonimo di civiltà. Sulla tavola c’erano oggetti semplici, essenziali: il ceto contadino posava il cibo su piatti fatti di pasta indurita o cotta, simili a gallette, chiamati “mensae”.
Nel tempo, il significato sociale del pranzo, con uso di fini porcellane e oggetti in metallo, prezioso diventa luogo di ostentazione. Marina Gasparini ci offre un altro punto di vista: la sua tavola, completamente realizzata in organza di seta, è un pretesto per mettere in mostra suggestioni biografiche e attraverso l’uso di un materiale leggero e delicato per dare consistenza alle sue ossessioni.
Differente Il lavoro di Marina Gasparini che pone l’attenzione sull’atelier del fornaio, sul pane e la sua penuria che periodicamente affligge l’umanità. O come quello sull’attaccamento alle proprie radici di Gabriella Benedini che con l’opera “Il canto del pane” ci introduce nel drammatico destino del poeta armeno Daniel Varujan. Altri artisti ancora, Pino Lia, Simonetta Chierici, Ornella Garbin si interrogano sul problema dell’emigrazione in cerca del cibo.
Fino ad arrivare al luogo paradigmatico dei tempi in cui viviamo. La discarica, simbolo di spreco, di consumismo superficiale e disattento, metafora della disgregazione. E proprio “Discarica” è il titolo dell’opera di Iuccia Discalzi Lombardo, un imponente ammasso di materiali differenti e disordinati, materiali di scarto trasformati e rivisitati, per poi diventare soggetto di una chiara e allusiva metafora.
E ancora molto da esplorare, dai semi di Narciso Bresciani ai pani di terra di Armanda Verdirame.
In un’alternaza di significati, che mettono a confronto il valore che attribuiamo al cibo e che portano da una parte al suo rifiufo come nel lavoro di Luca Armigero dedicato all’anoressia e dall’altro alla sua sublimazione, come nella proposta di Valentino Vago, ci ritroviamo nel mezzo del paradosso di un’epoca ricca di contraddizioni.
In Mostra sono proposti anche due video, molto differenti tra loro: “Mein Koma” (Pane e risvegli) di Nicola Bettale e “A sud di nessun nord” di Gaetano Fracassio.
Le premesse e le riflessioni espresse vogliono solo essere un invito a vivere di persona le suggestioni che le opere in mostra possono evocare in ognuno, in un percorso artistico dove il pane diviene soggetto, discussione e meditazione, generatore di temi e pensieri. Lasciarsi andare, farsi trasportare in un viaggio estetico e intellettuale, accogliere le domande che affiorano, i dubbi e le perplessità; lo scopo dell’arte è proprio questo; stimolare un pensiero critico, attraverso forme inusuali, più o meno esplicite di bellezza.
Durante la Mostra, nel gennaio 2014, sono previsti due eventi collaterali presso la Sala Merini dello Spazio Oberdan: la proiezione del film del regista Beppe Arena “Il fuoco che non muore mai” sulla vita di Tina Modotti e la performance musicale del Maestro Christopher Pisk, che esegue al pianoforte "Panis Noster", poema sinfonico composto appositamente per il Progetto.
Quella che gli antichi greci chiamavano “Gea, dea della terra, madre di tutto” è una allegoria condivisa della mitologia mondiale. Assimilata alla madre, la Terra è simbolo di fecondità e di rigenerazione. Nella società agricola dei primordi, quando germoglia evoca l'immagine della donna che concepisce la vita e partorisce: uno dei misteri più affascinanti dell’esistenza. E di questo rapporto ancestrale parlano numerose opere in mostra. Dalla pagnotta “preistorica” di Lelo Cremonesi, con le tipiche figure rupestri che abbiamo classificato come le prime espressioni "d'arte" dell’uomo, alla forma di terracotta, morbida e sensuale, che evoca colline o seni di madri nutrici nell'opera di Pasquale Ninì Santoro o la madre come origine nel lavoro di Walter Valentini e di Carla Cacianti. E il grano e la farina offerti da una sorta di cordone ombelicale secondo la visione che Silvia Cibaldi ci propone con la sua installazione e il mito di Cerere e Persefone nei lavori di Mario Raciti e di Mariangela De Maria.
Generazioni di artisti a confronto e una incredibile molteplicità di linguaggio: la mostra invita a riflettere non solo sulla pluralità degli argomenti, ma anche sulla ricchezza che il contemporaneo offre nei modi della narrazione. A ognuno di noi scegliere il più congeniale.
Il percorso porta poi l’attenzione dello spettatore a una memoria perduta, come nel lavoro di Valerio Gaeti, che con legno, cenere, spine, rimanda ai culti praticati per la conservazione degli alimenti tramite la cenere. Dal nomadismo, agli insediamenti stanziali e alla emigrazione in cerca di cibo. L’insediamento stanziale offre nuove possibilità di lettura. Il pasto consumato collettivamente si arricchisce di nuovi rituali: la tavola diventa il luogo dove esprimere cultura o mettere in mostra il proprio status sociale. Non è, infatti, la tavola funzionale alla necessità di cibarsi, ma alla dimensione tutta culturale del rituale del cibo.
Spartire la mensa, accogliere alla propria tavola esprime la volontà d’intima condivisione, di partecipazione, una simbologia ben presente nella liturgia cristiana e che il lavoro di Elke Pollak, una tavola senza commensali, sottolinea per sottrazione.
Ogni oggetto usato per apparecchiare ha una sua storia e un ruolo nell’architettura della tavola. Presso i romani del II secolo a.C. l’uso della tovaglia, allora uno spesso tappeto, era un sinonimo di civiltà. Sulla tavola c’erano oggetti semplici, essenziali: il ceto contadino posava il cibo su piatti fatti di pasta indurita o cotta, simili a gallette, chiamati “mensae”.
Nel tempo, il significato sociale del pranzo, con uso di fini porcellane e oggetti in metallo, prezioso diventa luogo di ostentazione. Marina Gasparini ci offre un altro punto di vista: la sua tavola, completamente realizzata in organza di seta, è un pretesto per mettere in mostra suggestioni biografiche e attraverso l’uso di un materiale leggero e delicato per dare consistenza alle sue ossessioni.
Differente Il lavoro di Marina Gasparini che pone l’attenzione sull’atelier del fornaio, sul pane e la sua penuria che periodicamente affligge l’umanità. O come quello sull’attaccamento alle proprie radici di Gabriella Benedini che con l’opera “Il canto del pane” ci introduce nel drammatico destino del poeta armeno Daniel Varujan. Altri artisti ancora, Pino Lia, Simonetta Chierici, Ornella Garbin si interrogano sul problema dell’emigrazione in cerca del cibo.
Fino ad arrivare al luogo paradigmatico dei tempi in cui viviamo. La discarica, simbolo di spreco, di consumismo superficiale e disattento, metafora della disgregazione. E proprio “Discarica” è il titolo dell’opera di Iuccia Discalzi Lombardo, un imponente ammasso di materiali differenti e disordinati, materiali di scarto trasformati e rivisitati, per poi diventare soggetto di una chiara e allusiva metafora.
E ancora molto da esplorare, dai semi di Narciso Bresciani ai pani di terra di Armanda Verdirame.
In un’alternaza di significati, che mettono a confronto il valore che attribuiamo al cibo e che portano da una parte al suo rifiufo come nel lavoro di Luca Armigero dedicato all’anoressia e dall’altro alla sua sublimazione, come nella proposta di Valentino Vago, ci ritroviamo nel mezzo del paradosso di un’epoca ricca di contraddizioni.
In Mostra sono proposti anche due video, molto differenti tra loro: “Mein Koma” (Pane e risvegli) di Nicola Bettale e “A sud di nessun nord” di Gaetano Fracassio.
Le premesse e le riflessioni espresse vogliono solo essere un invito a vivere di persona le suggestioni che le opere in mostra possono evocare in ognuno, in un percorso artistico dove il pane diviene soggetto, discussione e meditazione, generatore di temi e pensieri. Lasciarsi andare, farsi trasportare in un viaggio estetico e intellettuale, accogliere le domande che affiorano, i dubbi e le perplessità; lo scopo dell’arte è proprio questo; stimolare un pensiero critico, attraverso forme inusuali, più o meno esplicite di bellezza.
Durante la Mostra, nel gennaio 2014, sono previsti due eventi collaterali presso la Sala Merini dello Spazio Oberdan: la proiezione del film del regista Beppe Arena “Il fuoco che non muore mai” sulla vita di Tina Modotti e la performance musicale del Maestro Christopher Pisk, che esegue al pianoforte "Panis Noster", poema sinfonico composto appositamente per il Progetto.
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