Carlo Colombo. Sculpture armchair 784

Carlo Colombo. Sculpture armchair 784, Triennale di Milano

 

Dal 17 Aprile 2016 al 17 Aprile 2016

Milano

Luogo: Triennale di Milano

Indirizzo: viale Alemagna 6

Orari: h 11.30

Telefono per informazioni: +39.02.724341

E-Mail info: info@triennale.org

Sito ufficiale: http://www.triennale.org



Ci si può sedere sulla Gioconda o sul David di Michelangelo?
No, ce lo impedirebbero, giustamente. E se anche potessimo farlo, sarebbe insensato, visto che la Gioconda e il David non sono stati fatti perché ci si possa sedere sopra. E’ vero che qualcuno, magari con velleità intellettuali, potrebbe giustificare il gesto come una provocazione volta a dissacrare, anche per via delle particolari valenze che l’atto del sedersi può avere in determinati contesti culturali (farlo sulla faccia di una persona, per esempio, é considerato reato in Gran Bretagna); ma in tal caso si provocherebbe in merito alla sacralità che viene comunemente riconosciuta a certi grandi capolavori dell’arte, trasgredendo la regola per cui la tutela di beni considerati d’interesse pubblico non può prevedere usi di un certo genere. Non si entrerebbe nel merito, dunque, se quelle opere abbiano una qualche vocazione, fosse anche la più nascosta. per le quali possano farci da seduta.
Il problema della sculpture armchair di Carlo Colombo, ontologico, verrebbe da dire, é che é un’opera d’arte con un’altissima predisposizione ad accogliere le terga altrui. La questione non si pone, diranno i più: qualcosa é cambiato dai tempi della Gioconda e del David, oggi esiste il design che ha reso opere d’arte anche gli oggetti nati per assolvere funzioni pratiche, poltrone comprese. Mi permetto di contraddire questa opinione corrente, sulla base anche di un’esperienza personale che mi ha visto perito in una causa che contrapponeva due produttori di mobili. Il primo, specializzato in mobilia di design, sosteneva che l’altra azienda, dedita a una produzione decisamente più economica e popolare, avesse copiato impunemente un loro letto, firmato da un noto architetto, che per essere stato citato nelle pubblicazioni scientifiche ed esposto nei musei doveva essere considerato un’opera d’arte. Ho contestato che un oggetto nato con la finalità commerciale di essere un letto possa essere considerato in prima istanza un’opera d’arte allo stesso modo di come si farebbe, per esempio, con il Bed di Robert Rauschenberg, che una volta era un letto anch’esso, e che ora, manomesso dall’artista e trasformato in oggetto a esclusiva finalità estetica, si trova esposto al Museum of Modern Art di New York (appeso a parete, perché a nessuno vengano tentazioni di un certo genere) nelle medesime modalità reverenziali della Gioconda o del David. Il giudice mi ha dato ragione: si può discutere sul plagio, quindi sul diritto alla tutela di un prodotto dell’ingegno, ma non sul fatto che sia stata copiata un’opera d’arte. Sicché, se dovessimo riconoscere alla poltrona di Carlo Colombo di essere arte in quanto design, dovremmo conseguirne che non é un oggetto il cui primo scopo é estetico.
Se ho capito bene, non é questo il proposito di Colombo, almeno in questa occasione. Certo, Colombo é designer di professione, per di più affermato, sarebbe quasi automatico inquadrare la sua sculpture armchair in un certo modo, nella linea di quanto ha già fatto e continua a fare abitualmente, anche perché, a occhio e croce, l’opera avrebbe tutte le caratteristiche per prestarsi alla produzione in serie. Stavolta, però, Carlo Colombo vuole che la nostra concentrazione, fermo restando che nessuno nega l’artisticità del design, si sposti dal letto firmato al Bed di Rauschenberg, per usare il metro prima indicato a proposito della causa per la quale ho fatto da perito, ovvero dall’oggetto pratico la cui finalità estetica é accessoria a quello che invece é eminentemente estetico. Come tale, il secondo va valutato nei termini propri della disciplina critica che li considera, da cui anche il mio ruolo in questa sede.
Niente di più facile, perché i rimandi della sculpture armchair all’arte contemporanea mi paiono piuttosto evidenti. E’ infatti opera in cui combaciano perfettamente due nature comunque distinguibili: una più strutturale, con i componenti tubolari, replicati regolarmente secondo un principio modulare, che formano una texture tendente al cubo perfetto, se non venisse alterata, con tagli in sezione a diversa altezza e di andamento curvilineo, in corrispondenza della cavità a seduta; l’altra, più visiva, riguarda l’effetto ottico che tale configurazione plastica comporta, come se fosse un dispositivo autonomo rispetto ad essa.
Partirei, per motivi filologici, proprio dall’aspetto visivo. 1965: a New York, nel già citato MoMA, si svolse una mostra internazionale destinata a fare epoca, The Responsive Eye. Vi si raccolse il meglio della ricerca artistica d’ambito astratto che servendosi della serialità geometrica,  riproducendo in modo sistematico forme regolari che vengono opportunamente combinate, vuole suscitare in chi guarda la percezione di particolari effetti, come se si trattasse di test di psicologia sperimentale, sulla scia di quanto, a suo tempo, aveva fatto Marcel Duchamp con Anémic Cinéma (1926). E’ la mostra che consacra il ruolo di Victor Vasarely, emulo di Moholy-Nagy, come leader di quella che, da quel momento in poi, viene chiamata Op-Art. Già nella serie Vega, della seconda metà degli anni Cinquanta, Vasarely alterava delle scacchiere in bianco e nero in modo da ottenerne l’effetto di emersioni di corpi convessi o, al contrario, il risucchio entro cavità concave. Sono effetti che ritornano inevitabilmente alla mente vedendo la sculpture armchair di Colombo. Vicino a Vasarely, si distingue l’inglese Bridget Riley, anch’essa interessata alla bicromia e all’effetto dello spazio piegato in senso curvilineo (Movement in Squares, 1961, Fission, 1963, Hesitate, 1964, Pause, 1964), prima ancora di specializzarsi nel moiré, l’immagine di interferenza.
Esiste anche una Op-Art scultorea. La promuove, in particolare, l’israeliano Yaacov Agam, che già dal 1955 era riuscito a riunire, attorno alla mostra parigina di Le Mouvement (Galerie René), oltre   a Vasarely, giovani leve della scultura sudamericana come i venezuelani Jésus Rafael Soto e Carlos Cruz-Diez, più tardi seguiti dall’argentino Julio Le Parc. C’é una grammatica comune in questi scultori: la composizione per elementi tubolari in sequenze regolari, anche se secondo partiti prevalentemente longitudinali, all’interno delle quali si congegnano effetti di mobilità – Agam e Cruz-Diez ricorrendo spesso al colore, gli altri due facendone anche a meno – che modificano l’impressione sensoriale di insiemi altrimenti percepiti come uniformi. Proprio come nella strutturalità della sculpture armchair prima descritta.
Un’ultima annotazione. C’é un altro artista che, per proprio conto, sviluppa interessi ottici sul tema della scacchiera bicromatica in modo parallelo a Vasarely e alla Riley, in anni perfino precedenti ai loro. Si tratta di Enzo Mari, che in molti considerano – é importante sottolinearlo, ai fini del nostro discorso – il più artista fra i designer italiani della sua generazione. Interessi optical, quelli di Mari, che non smettono di accompagnarlo anche negli anni seguenti, tradotti in controparte nel cestino portafrutta Atollo (1965), come se fosse un corrispondente plastico di certi giochi percettivi. Riempiti i fori sghembi dell’Atollo di tubi alla Soto, ognuno della stessa lunghezza, tagliati in sezione secondo l’andamento curvilineo dell’appoggio, e otterrete un’armatura assai simile a quella su cui si basa l’opera di Carlo Colombo, quasi che potesse servire a coprire la sua cavità. E il cerchio si chiude.
Vittorio Sgarbi

Domenica 17 aprile ore 11.30



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