“Un paio di calzini non sono meno adatti a fare un dipinto di legno, chiodi, trementina, olio e stoffa”. Un'affermazione di Robert Rauschenberg, artista statunitense che non ha mai esitato ad inserire nelle sue opere oggetti d'uso quotidiano e materiali riciclati di ogni genere: dalle ferraglie recuperate presso la discarica Fort Myers (Florida) fino agli oggetti più vari, tra cui una capra imbalsamata, un pneumatico, una scopa, un ombrello. Materiali comuni, usati e poi scartati dalla società del benessere, che ben si prestano a sottolineare la volontà del maestro di unire insieme pittura e realtà quotidiana nell'America del boom economico.
Ma il fascino degli artisti per il trash non riguarda solo Rauschenberg, anzi è una pratica creativa molto più remota e attraversa tutto il Ventesimo secolo per approdare sino ai giorni nostri. Il primo ad essere sedotto dal rifiuto è stato sicuramente Pablo Picasso, nel 1912, con Nature morte à la chaise cannée (Natura morta con sedia impagliata), un dipinto dissacrante ed anticonformista in cui la sedia è trasfigurata da un pezzo di tela cerata incorniciata con una corda grezza: un capolavoro che diviene il “manifesto picassiano” del collage. Da quel momento in poi, la nuova tecnica dilaga negli ambiti più avanzati della ricerca visuale coinvolgendo autori provenienti da varie correnti artistiche. Si scatenano infatti i futuristi Umberto Boccioni e Carlo Carrà, che realizzano lavori con cartone, ferro e legno, per dimostrare che si può creare un'opera d'arte anche con materiali di scarto. Una provocazione questa che trova la sua apoteosi nel Dadaismo di Kurt Schwitters – uno dei maggiori esponenti della cosiddetta arte dei detriti, basata sull'assemblaggio di materiali di recupero – e di Marcel Duchamp con i suoi ready-made, tra cui il famoso orinatoio eletto concettualmente ad opera d'arte grazie al titolo Fontana.
É una tendenza a servirsi del rifiuto come mezzo artistico destinata a far scuola soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, quando gli artisti più innovativi utilizzano gli oggetti più disparati per raccontare il dramma di un mondo sconvolto. Alberto Burri predilige i sacchi di iuta come metafora della pelle ferita e seviziata, mentre il catalano Antoni Tàpies rimuove brandelli di muro per dipingerci sopra slogan politici. Che dire poi del Nouveau Réalisme, movimento artistico degli anni Sessanta che sceglie di utilizzare scorie, detriti e rottami del mondo, trasformandoli e facendoli così transitare in un contesto ad essi estraneo? Il francese Arman accumula decine di oggetti quotidiani, dai pennelli ai violini, dentro scatole in perspex trasparenti; lo svizzero Daniel Spoerri arriva persino a incorniciare un tavolo con i resti di un pasto, con tanto di stoviglie sporche, invece César inizia la creazione di sculture metalliche fatte di rottami saldati insieme, cercando di riscattare le cose che ogni giorno vengono abbandonate, rotte e sprecate dalla macchina del consumismo, e assegnando ad esse un impensabile significato artistico.
Sempre negli anni Sessanta anche gli artisti statunitensi, come Robert Rauschenberg e Andy Warhol, esaltano l'oggetto quotidiano a feticcio del consumismo, al contrario l'Arte Povera gli affida un significato di critica sociale. Così la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto (1967) esprime al meglio la dialettica fra un'immagine immutabile (icona della classicità) e la presenza multiforme e mutevole dei vestiti consumati (indici di cambiamento e rinnovamento). Anche Pino Pascali si inserisce in questa poetica, realizzando armi a grandezza naturale composte da pentole, scodelle e ingranaggi meccanici saldati insieme. Una cifra stilistica canzonata che Pascali conosceva bene: “I miei giocattoli” – così chiamava l'artista le sue opere – “erano mucchi di oggetti trovati in casa, che rappresentavano armi. Un fagiolo diventava una pallottola, un bastone di una scopa ed una scatola tenuti insieme da un elastico un fucile, un rotolo di carta legato ad uno sgabello un cannone”. Più teatrale l'uso dei rifiuti per Jannis Kounellis, che mischia frammenti di statue classiche a sacchi di carbone, macchine da cucire o coltelli, ma unisce pure supporti rigidi (ferro, lastre di legno, contenitori d'acciaio) a materie “antiformali” (lana, cotone, carbone, cactus).
“L'immondizia può essere illuminante” – scrive Lea Vergine, critica d'arte che ha dedicato un'intera mostra al trash nell'arte presso il Mart di Rovereto – “Gli artisti la usano per raccontare i nostri anni: la violenza, la fragilità, la nostalgia, le lacerazioni, lo struggimento, l'immondo e il disperato”. Negli anni Ottanta- Novanta gli oggetti usati, scaduti o da pattumiera immessi nelle opere svelano infatti “una sorta di esorcizzazione contro i nostri ulcerosi disagi di fine secolo”. I rifiuti vengono ibridati, incorporati in un lavoro artistico che diviene immagine nuova. Nell'arte contemporanea si elegge così il brutto a una nuova bellezza e si evidenzia la condizione dell'uomo d'oggi, in cui nulla del quotidiano viene eletto o distinto, ma direttamente assorbito. Tutto può essere sacralizzato nell'opera d'arte e dunque il trash viene inserito, incollato e plastificato: le garze sporche di sangue di Orlan, le camere d'aria sgonfie di Carol Rama e le sculture di Tony Cragg, figure composte da centinaia di frammenti di plastica colorata ritrovati dall'artista lungo le rive del Reno.
Oggigiorno la creatività degli artisti nell'arte del riciclo non ha limiti. Grande esempio di fantasia sono le opere di Christian Boltanski, pioniere di un'estetica legata al tema della memoria e affermatosi oramai come maestro indiscusso nell'organizzare ed esporre oggetti estrapolati dal loro contesto quotidiano: spiazzante il gigantesco cubo, presentato nei mesi scorsi all'Hangar Biccocca di Milano, dove una gru ammassava, mescolava e ammucchiava a caso cumuli di vestiti.
E poi Subodh Gupta e le sue sculture che incorporano prodotti di uso quotidiano assemblati con straordinaria maestria. Oggetti onnipresenti nel mondo, come i barattoli di latta, le pentole, i contenitori per il pranzo al sacco, le biciclette e i secchi per il latte, vengono decontestualizzati e ricombinati dall'artista indiano. Le opere del thailandese Rirkrit Tiravanija, invece, sono resti dei pranzi cucinati dall'artista in musei e in gallerie, mentre le installazioni di Tom Sachs sono realizzate con le buste dei grandi marchi della moda.
La lista degli autori che si occupano di elevare gli scarti ad opere d'arte potrebbe essere infinita. Dal Ventesimo secolo ad oggi osserviamo una tendenza artistica in cui il rifiuto abbandona il suo valore reale di oggetto usato e buttato per diventare un materiale che solo gli artisti riescono a trasformare in un capolavoro, eccezionale e mai banale....