La suddivisione in classi di oggetti

 

28/05/2001

Nel 1784 Stefano Borgia avvia, anche grazie alla collaborazione dell’abate etruscologo Luigi Lanzi, una campagna di catalogazione della sua ormai vasta collezione con indicazioni circa la data di ingresso, il luogo di provenienza, utili informazioni seguite spesso dalla documentazione visiva dell’epoca (per lo più disegni e incisioni). Nell’inventario dei beni del cardinale, redatto nel 1814 in previsione della vendita a Gioacchino Murat, l’enorme messe di oggetti è ripartita in classi d’appartenenza, secondo l’attitudine classificatoria degli intellettuali educati ai principi del rigore e dell’ordine. I curatori della mostra, Anna Germano e Marco Nocca, hanno voluto così organizzarne l’allestimento proprio secondo l’antica ripartizione in tredici categorie. Dopo una prima sala dedicata ai Borgia di Velletri, attestati nella città a partire dal XII secolo, e alla loro quadreria, ricca di dipinti del Seicento romano, il percorso espositivo restituisce al pubblico lo Studio del Cardinale. In esso è ricreata la Biblioteca di Palazzo Altemps, residenza romana del Borgia dal 1793 al 1804, con i diciannove Ritratti degli eruditi dell’Accademia Volsca, principali collaboratori del prelato, i codici liturgici (tra cui il celebre Messale di Alessandro VI), il Medagliere della Biblioteca Vaticana. Nella terza stanza trovano spazio le prime tre classi di antichità, quelle etrusche, volsche (autoctone, così dette dal famoso “Tempio Volsco” di Velletri), greche, custodite anticamente nella casa-museo velletrana. Molto bella è un’urna cineraria etrusca del II secolo a.C., di piccole dimensioni, che presenta sul coperchio l’immagine di un defunto sdraiato totalmente avvolto nel mantello e sulla fronte quella di un uomo e una donna che si stringono la mano nel commovente gesto dell’estremo saluto. Nel vano successivo uno straordinario Rilievo con dromedario del II secolo d.C. introduce alla sezione delle antichità romane, delle iscrizioni e delle terrecotte antiche. Appartenente ad un monumento funerario, forse coperchio di un sarcofago, la lastra mostra l’animale con le zampe poggianti su un corso d’acqua scaturente dalla bocca aperta di una protome barbuta. Il naturalismo della figura è intenso e l’animale si staglia sul fondo neutro del marmo grazie ad una linea di contorno profondamente incisa. In una vetrina attigua è esposto un gruppo di statuette bronzee proveniente da un orcio ritrovato nella campagna romana. L’insieme, di fattura per lo più moderna, imita una serie di amuleti di origine orientale diffusi in tutto l’impero nella tarda antichità e raffiguranti, come figure principali, una donna o un uomo con una mano sulla bocca e una sulle natiche o lungo il fianco: oggetti di elevato valore rituale e simbolico che rimandano con i gesti alla pratica ascetica del silenzio. La “ricerca delle origini” motivò l’interesse del cardinale per l’Egitto: 24 pezzi, alcuni di notevoli dimensioni, ripropongono nella quinta stanza la ricchezza originaria della sezione. Quella successiva, dedicata alle antichità arabico-cufiche, propone preziose coppe iraniane del XII e XIII secolo, un bruciaprofumi in ottone, un’eccezionale serie di monete arabe coniate nelle zecche normanne di Sicilia. Dall’India Stefano Borgia si fece recapitare la serie di “pitture” su carta del XVIII secolo (nona classe di oggetti), testimonianze del mondo esotico, della sua religiosità – si vedano le immagini di Vishnu, Siva, le forme degli idoli o del culto, i sacrifici e i riti di meditazione – ma anche della vita quotidiana di quei popoli, del paesaggio naturale, delle usanze e dei costumi. Un altare portatile in legno, al centro del quale è posta l’immagine del dio Vishnu, colpisce per la straordinaria gamma cromatica e l’esuberanza decorativa. Si è propensi a collocarlo alla fine del XVIII secolo, quando fu portato il Italia da qualche missionario per farne dono gradito al cardinale. Il nucleo di oggetti provenienti dall’America latina fu forse ispirato al Borgia dal “Museo delle Meraviglie” di Ferdinando Cospi, che a Bologna aveva raccolto, alla metà del Seicento, una delle più straordinarie collezioni di “cose americane”. Gli abiti, le armi, i manufatti, gli idoli messi insieme a Velletri sono testimonianze utili alla conoscenza (già di tipo etnografico) della vita quotidiana e della cultura di popolazioni lontane nel tempo e nello spazio. Il “Museo Sacro” (decima classe di oggetti) presenta, infine, oltre ad un gruppo notevole di dipinti del XIV e XV secolo, due stupendi pezzi in avorio: un Crocifisso germanico del XVII secolo e una statuetta del Buon Pastore proveniente da Goa in India. Gesù Bambino, nelle vesti del Buon Pastore, è raffigurato in meditazione col braccio destro flesso a sostenere il capo, attorniato dal suo gregge di pecore, due delle quali gli sono sulla spalla e nel grembo. Il monte sulla cui sommità è seduto il giovane è scolpito in un unico blocco di avorio ed è sapientemente lavorato. Il soggetto ebbe una grande fortuna nelle colonie indiane del Portogallo ed in particolare a Goa che, conquistata nel 1510 da Alfonso di Abuquerque, divenne capitale politica del possedimento portoghese in India. E’ all’inizio dell’età moderna che gli artigiani locali, consapevoli delle possibilità di guadagno, impararono così a produrre immagini per il mercato occidentale. Dopo la mostra romana su Atanasius Kircher (febbraio-aprile 2001), questa dedicata a Stefano Borgia sottrae dall’ombra un’altra figura di “curioso” e stravagante collezionista pressoché dimenticato: speriamo che alle due iniziative ne seguano presto altre.

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