Al Victoria & Albert Museum di Londra fino al 22 marzo 2026
Marie Antoniette, lo stile come arte di propaganda

Kate Moss, Fashion: Sarah Burton for Alexander McQueen, Van Cleef & Arpels, and Julian d'Ys, The Ritz, Paris 2012. [photographs of Kate Moss at the Paris Ritz for Vogue US April 2012 issue] © Tim Walker - courtesy © Victoria and Albert Museum, London
Piero Muscarà
18/09/2025
Mondo - Il 20 settembre 2025 apre a Londra al Victoria and Albert Museum di South Kensington una grande mostra dedicata all'ultima regina dell'Ancien Regime. E il V&A di Londra sceglie un’altra strada per raccontare Maria Antonietta: separare la donna dal mito e trattare il mito come un fatto culturale, qualcosa che si studia come si studiano i linguaggi. Marie Antoinette Style non aggiunge un altro capitolo al pettegolezzo di corte ma osserva come un’estetica nata tra protocolli e scandali continui a dare forma all’immaginario contemporaneo. Il punto di partenza è storico e concreto: pantofole di seta, frammenti di abiti da corte, gioielli privati, la lettera finale.
Nell’Ottocento, con l’imperatrice Eugenia, la regina diventa un culto sentimentale e nasce un vocabolario di interni, oggetti e pose che colonizza l’idea stessa di “stile francese”. Nel Novecento il registro cambia ancora: decoro che flirta con l’eccesso, favola che scivola nell'immagine di moda, fino alla cultura pop che trasforma una biografia tragica in una narrazione estetica permanente. A cavallo tra storia dell’arte e costume, l’operazione sta in equilibrio su un tema scivoloso: le donne sovrane viste come spettacolo. È qui che i libri di Antonia Fraser e Caroline Weber tornano utili per sottrarre Maria Antonietta alle caricature. Non una martire dell’etichetta, non solo un capro espiatorio, ma una figura pubblica che attraverso i vestiti imparò a parlare, e finì punita anche per quella voce. La “chemise à la reine” in semplice mussola fu rivoluzione estetica e politica perché smentiva l’armatura del cerimoniale. Oggi quell’idea di naturalezza costruita ci parla con un’ironia feroce in un presente che pretende autenticità ma vive di stile. Il paradosso prosegue nei giardini: il Petit Trianon e l’Hameau, accusa facile di pastoralismo kitsch, sono anche un laboratorio di libertà dallo sguardo di corte. L’oscillazione tra reale e artificiale, tra ruolo e persona, è il codice del suo stile e spiega perché l’icona continua a funzionare come gioco estetico. Se serve un ponte con l’oggi basta guardare i social media e le passerelle: il ritorno ossessivo di fiocchi, pizzi, rosa cipria e tocchi rococò ribattezzati coquette suona come un’eco di Versailles. I linguaggi cambiano, gli algoritmi accelerano, ma la sceneggiatura è la stessa: femminilità allestita, insieme tenera e strategica, capace di esibire fragilità e potere nello stesso gesto. È una grammatica che seduce la moda perché promette una cosa semplice e imprendibile: controllo dello sguardo altrui.
Sofia Coppola la tradusse in palette pastello e delirio di scarpe. Nella mostra londinese i bozzetti e le calzature dialogano con Manolo Blahnik, Dior, Chanel, Erdem, Valentino, Moschino e Vivienne Westwood, ricordando che il “caso” Maria Antonietta non è un revival ma una dinamica culturale: quando ciclicamente l’industria desidera un’estetica del piacere consapevole, torna a quel repertorio di silhouettes, colori, accessori. Anche la leggenda del “che mangino brioche” oggi funziona come cartina di tornasole. È propaganda prima della propaganda, perfetta per raccontare come le narrazioni resistano più dei documenti. Smontarla non significa assolvere il regime di Re Sole, ma capire che l’immagine pubblica è sempre una tecnologia di potere e di opposizione.
In questo senso il percorso del V&A, con il suo finale che accosta la lama della ghigliottina all’ultima lettera, non cerca il colpo di teatro. Ricorda piuttosto che la cultura visuale sa trasformare il trauma in stile, e che quello stile può essere interrogato senza compiacimento. Il divertimento della mostra sta qui: non nel voyeurismo delle stanze, ma nel riconoscere quanto del nostro presente abiti quel lessico settecentesco. I set di Tim Walker e gli scatti di Robert Polidori mostrano che l’eredità non è un pacco sigillato ma un ambiente dove stare, smontare, ricombinare. Se la coquette di oggi stratifica fiocchi e ironia, è perché ha imparato che l’ornamento può essere una forma di propaganda sociale. E allora Maria Antonietta smette di essere solo la regina della spesa folle per tornare a essere ciò che fu anche allora: una professionista dell’immagine pubblica, con tutte le ambiguità del caso. La distanza storica consente un’ultima provocazione. In un tempo che predica sostenibilità e minimalismo, perché torna ciclicamente il desiderio di eccesso, zucchero, spettacolo? Forse perché l’estetica del troppo, quando è dichiaratamente artificiale, è più onesta dell’ipocrisia dell’essenziale di lusso. Forse perché serve un controcanto al moralismo che scorre in superficie nell’epoca della misurabilità. O forse, più semplicemente, perché la regalità, spogliata del potere, resta un genere narrativo irresistibile.
La mostra del V&A mette ordine senza moralismi e ricorda che dietro ogni gonna a paniere c’è un’infrastruttura di lavoro, denaro, politica e sogni. È questo il motivo per cui Maria Antonietta continua a parlare a moda, cinema e social: non come fantasma del privilegio, ma come specchio di un’industria che fa dell’emozione una forma d'arte e della forma un’idea di potere. Alla fine il verdetto è meno glamour di una parrucca e più interessante di una polemica: l’icona e il mito reggono perché raccontano il modo in cui guardiamo le donne che occupano lo spazio pubblico, come ne vestiamo il potere, come ne puniamo gli eccessi. Il resto è stile. O propaganda.

Elisabeth-Louise Vigée Le Brun, Ritratto di Maria Antonietta con una rosa © Chateau de Versailles, Dist. Grand Palais RMN, Christophe Fouin
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Sofia Coppola la tradusse in palette pastello e delirio di scarpe. Nella mostra londinese i bozzetti e le calzature dialogano con Manolo Blahnik, Dior, Chanel, Erdem, Valentino, Moschino e Vivienne Westwood, ricordando che il “caso” Maria Antonietta non è un revival ma una dinamica culturale: quando ciclicamente l’industria desidera un’estetica del piacere consapevole, torna a quel repertorio di silhouettes, colori, accessori. Anche la leggenda del “che mangino brioche” oggi funziona come cartina di tornasole. È propaganda prima della propaganda, perfetta per raccontare come le narrazioni resistano più dei documenti. Smontarla non significa assolvere il regime di Re Sole, ma capire che l’immagine pubblica è sempre una tecnologia di potere e di opposizione.
In questo senso il percorso del V&A, con il suo finale che accosta la lama della ghigliottina all’ultima lettera, non cerca il colpo di teatro. Ricorda piuttosto che la cultura visuale sa trasformare il trauma in stile, e che quello stile può essere interrogato senza compiacimento. Il divertimento della mostra sta qui: non nel voyeurismo delle stanze, ma nel riconoscere quanto del nostro presente abiti quel lessico settecentesco. I set di Tim Walker e gli scatti di Robert Polidori mostrano che l’eredità non è un pacco sigillato ma un ambiente dove stare, smontare, ricombinare. Se la coquette di oggi stratifica fiocchi e ironia, è perché ha imparato che l’ornamento può essere una forma di propaganda sociale. E allora Maria Antonietta smette di essere solo la regina della spesa folle per tornare a essere ciò che fu anche allora: una professionista dell’immagine pubblica, con tutte le ambiguità del caso. La distanza storica consente un’ultima provocazione. In un tempo che predica sostenibilità e minimalismo, perché torna ciclicamente il desiderio di eccesso, zucchero, spettacolo? Forse perché l’estetica del troppo, quando è dichiaratamente artificiale, è più onesta dell’ipocrisia dell’essenziale di lusso. Forse perché serve un controcanto al moralismo che scorre in superficie nell’epoca della misurabilità. O forse, più semplicemente, perché la regalità, spogliata del potere, resta un genere narrativo irresistibile.
La mostra del V&A mette ordine senza moralismi e ricorda che dietro ogni gonna a paniere c’è un’infrastruttura di lavoro, denaro, politica e sogni. È questo il motivo per cui Maria Antonietta continua a parlare a moda, cinema e social: non come fantasma del privilegio, ma come specchio di un’industria che fa dell’emozione una forma d'arte e della forma un’idea di potere. Alla fine il verdetto è meno glamour di una parrucca e più interessante di una polemica: l’icona e il mito reggono perché raccontano il modo in cui guardiamo le donne che occupano lo spazio pubblico, come ne vestiamo il potere, come ne puniamo gli eccessi. Il resto è stile. O propaganda.

Elisabeth-Louise Vigée Le Brun, Ritratto di Maria Antonietta con una rosa © Chateau de Versailles, Dist. Grand Palais RMN, Christophe Fouin
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