ART TALK | Gli Innovatori #01 Phil Grabsky

Parla Phil Grabsky, il pioniere dell'arte al cinema

Il regista, autore e produttore britannico Phil Grabsky | © 2017 Exhibition On Screen
 

Piero Muscarà

07/11/2017

Mondo - “Il prossimo sarà su Cézanne”. Parla veloce. All’altro capo del filo il regista, autore e produttore di documentari d’arte Phil Grabsky si trova a Londra. “Stiamo finendo il montaggio in questi giorni e contiamo di finalizzarlo per dicembre, in tempo per essere lanciato in sala in Gran Bretagna il 23 gennaio 2018”.

Questo film - che si intitola Cézanne portraits of a life - è il nuovo e ultimo prodotto di Exhibition on Screen, la casa di produzione britannica che ha re-inventato il modo di fare arte al cinema con documentari che nascono in collegamento con grandi esposizioni e mostre e che poi vengono distribuiti in tutto il mondo in network di sale cinematografiche che per lo più lavorano con finestre distributive brevi, brevissime. Due, tre giorni per concentrare il fuoco di fila della comunicazione intorno a uscite di “film evento” per portare in sala i grandi protagonisti dell’arte e le loro opere. E film che viaggiano attraverso i continenti e che stanno contribuendo a rendere l’arte, il parlare di arte, sempre più “pop”, sempre più “mainstream”.

Grabsky è il profeta che ha aperto la via nel deserto nel 2011 con il suo Leonardo Live un evento prima che un film prodotto dalla sua Seventh Art Productions in occasione della mostra alla National Gallery e che conteneva in nuce tutti gli elementi che oggi rendono popolare l’arte al cinema. Leonardo Live fu trasmesso l'8 novembre 2011, il giorno antecedente all’apertura ufficiale della mostra (poi chiusa a febbraio dell’anno successivo) e trasmesso “in diretta” ad un piccolo network di 41 sale cinematorgrafiche in Gran Bretagna e in tv sul canale Sky Arts, l’equivalente d’oltremanica del canale tv dedicato ad arte e cultura. Il format era quello della “visita guidata” per un film di 80 minuti condotto dal noto divulgatore televisivo, storico dell’arte e giornalista Tim Marlow e diretto da Phil Grabsky stesso, un regista che già alle spalle poteva contare su una lunga serie di documentari, premi e riconoscimenti.

“Tenga presente che Seventh Art Productions a partire dagli anni ’90 - continua Grabsky - si era già affermata come il più importante produttore di film d’arte in UK. E questo è stato sicuramente uno degli elementi che ha reso possibile dare vita oggi a Exhibition on Screen, un sistema di produzione che ci consente di realizzare 4-5 film all’anno e di distribuirli oggi non in solo 41 sale, ma in oltre 60 paesi in tutto il mondo”.



Come è stata possibile questa affermazione così veloce?
“C’è stata una grande accelerazione data dalle tecnologie che hanno trasformato il modello organizzativo delle sale cinematografiche in tutto il mondo, tagliando drammaticamente i costi relativi alla distribuzione fisica delle pellicole, oggi sostituite da semplici file che vengono trasmessi con nuovi proiettori direttamente sul grande schermo. Questo consente di concentrare e coordinare dei veri e propri lanci di opere destinate non solo a nicchie specifiche di pubblico, come gli art lovers, ma di rivolgersi a più ampie fasce demografiche, di ogni età, in tutto il mondo”.

Come avete costruito il vostro network distributivo?
“E’ un network che si sta ampliando.  In alcuni paesi abbiamo avviato le attività lavorando direttamente con gli esercenti come è stato sin dal nostro debuttto in Gran Bretagna o in Australia. In altri casi ci affidiamo a distributori esterni, come è stato in passato negli Stati Uniti con il distributore dei concerti del MET di New York, la società BY Entertainment. O oggi in Italia con Nexo Digital”.

Il MET è dal 2006, anno di insediamento del direttore generale Peter Gelb, che ha costruito un grande seguito internazionale intorno alle trasmissioni live dei grandi concerti - il Metropolitan Opera Live HD. Una programmazione che ogni anno porta 10 titoli in 2000 sale cinematografiche in 71 paesi al mondo con un box office che supera i 60 milioni di € a stagione.

In questo senso Exhibition on Screen ha avuto l'intuizione di portare contenuti d’arte potendo contare su sistema distributivo già "rodato". E dando di fatto vita ad un nuovo mercato globale per i film d’arte.
“Per i documentari la grande rottura è avvenuta con Michael Moore, che ha mostrato che un pubblico c’era e in tutto il mondo con due film che complessivamente hanno raccolto più di 150 milioni di dollari al botteghino. E’ il documentario che diventa mainstream.”

E qui gli esempi si moltiplicano negli ultimi anni in tutto il mondo. Film come Searching for Sugarman salgono alla ribalta internazionale. Grandi temi di attualità, musica.

Portare l’arte sul grande schermo non è però banale. Come si costruisce un film d’arte?
“Partendo dalla storia. La tecnologia è di aiuto, ma francamente non sono stato un grande fan del 3D, che infatti è fallito, né ora del cinema a 4K o a 8K. Il rischio è che divenga un gioco fine a se stesso. Per me conta la narrazione, i protagonisti sono gli artisti e le loro opere. La qualità raggiunta oggi dai nostri film è già così alta, che non ha bisogno di essere migliorata ulteriormente”.

Film d’arte che vanno sempre più però nella direzione della recitazione e della fiction. Penso lo scorso inverno a Raffaello - Principe delle Arti - in 3D o più recentemente a Loving Vincent.
“Personalmente non è il mio stile, né la mia direzione. Raffaello non l’ho visto ancora, Loving Vincent mi pare più che altro un film di animazione. Certo i numeri di cui stiamo parlando sono ancora più grandi ma da produttore mi interrogo su quale sarà il bilancio finale di questa esperienza, se partiamo dai 4 milioni di € investiti e non so quanto per la promozione.”

Loving Vincent ha fatto risultati strabilianti in Italia, 130mila spettatori, 1 milione 200 mila € al botteghino. Sono numeri importanti. E il film tornerà di nuovo in sala il 20 novembre, sempre in Italia.
“Anche noi abbiamo portato oltre un milione di spettatori al cinema. In 6 anni abbiamo prodotto 20 film, con budget più piccoli (200-250 mila € di produzione, 100-150 mila € di marketing e promozione), ma è un sistema che alla lunga è profittevole, perché il nostro obiettivo è costruire una library di titoli sempre verdi incentrati sulla divulgazione degli artisti e della loro arte. Bisogna però avere una prospettiva a dieci, venti anni.”

Poche imprese hanno questa visione a lungo termine..
“E’ vero, ma non basta la visione sul lungo termine. Servono la fiducia e conoscere l’ambiente. Un altro nostro punto di forza è la relazione con i musei, le istituzioni e le art galleries che ci conoscono e sanno che facciamo un lavoro a regola d’arte e quindi ci danno accesso privilegiato alle mostre e ai loro contenuti.”

Sono accordi di co-produzione questi con i musei?
“No, tengo a tenere distinti i ruoli. Spesso collaboriamo nel senso che per esempio diamo ai musei parte dei nostri materiali video, in vari formati, per essere inseriti all’interno della mostra. Ma la produzione è di Exhibition on Screen, indipendente.”

Come raccogliete i budget?
“Non sono operazioni finanziariamente semplici. Ogni film è una storia a sé. Soprattutto per la vastità del mercato in cui operiamo e per i tempi che sono lunghi. La distribuzione nelle sale è chiave in questo senso, perché ci rende indipendenti dalla televisione. Possiamo fare “documentari d’arte per il cinema”, pensando all’esperienza dello spettatore seduto in un teatro al buio assieme ad altre persone. Non è la stessa cosa che vedere un film su iPAD o al televisiore.”

Non le piace la televisione?
“La tv è il mezzo di comunicazione più importante del nostro tempo, più dei social, di internet, della radio, del cinema, dei giornali. Ma ovviamente lavorare con un mezzo così potente ha delle implicazioni rilevanti.”

Ad esempio?
“E’ chiaro che se produco un film per la tv su van Gogh sarò portato a drammatizzare alcuni aspetti tematici: la follia, l’orecchio mozzato, l’ospedale psichiatrico, i bordelli, le donne, Gauguin… appiattendo l’artista ad un cliché riconoscibile, facile, pronto al consumo. Ma non per questo veritiero, autentico.”

Il tema è quello del vero?
“La mia idea è che questi film che realizziamo debbano avere come fine quello di incoraggiare il pubblico a vedere e a porsi delle domande. Anche imparare qualcosa. Quando faccio un film penso di avere sempre due tipologie di spettatori: gli esperti - a cui cerco di regalare dei dettagli, degli approfondimenti, delle curiosità che magari non conoscevano - e gli inesperti. Io stesso in questo senso mi sento il prototipo dello spettatore. Magari conosco di nome l’artista, ma il documentario è sempre una esplorazione e una scoperta.”

Vero che rifugge la recitazione.
“In 20 film prodotti, gli attori sono davvero pochi, un film ha due attori che recitano solo poche battute..”

Non le piace lavorare con gli attori?
“In alcuni casi mettere un attore in costume in un ambiente ‘originale’ può essere una soluzione per facilitare il pubblico e spiegare velocemente un contesto, una situazione. In generale preferisco evitarlo, poiché è molto facile farlo malamente. E in più perché la drammatizzazione tende ad essere inaccurata. Van Gogh non era il pazzo lunatico che ci viene raccontato, ma aveva dedicato grande tempo a studiare l’arte. Per dirne una. In questo senso penso che il mio In Search for Mozart sia un film più accurato per comprendere il genio del musicista salisburghese rispetto ad un bellissimo film come Amadeus, che però è intrattenimento.”

Quindi opere d’arte, esperti che raccontano e i luoghi originali in cui l’artista ha realizzato le opere. Tutto qui?
“Sì per esempio per Canaletto a Venezia (film che esce in Italia per Nexo Digital il 27-28-29 novembre - ndr) , abbiamo lavorato su questi tre filoni. In generale: scrittura e ricerca. Di solito scegliamo le storie da sviluppare partendo dalla notizia di mostre che verranno realizzate da importanti istituzioni con due, tre anni di anticipo. Abbiamo dunque il tempo per incontrare e intervistare approfonditamente i curatori e i direttori dei musei, conoscere la storia che la mostra vuole raccontare e poi studiare la biografia dell’artista e quel che accade nel mondo in cui vive. La corrispondenza epistolare è una documentazione molto importante perché consente di ascoltare - con la sua voce - l’artista. E poi le opere e i luoghi in cui sono state realizzate o dove si trovano. Alla fine vorrei che il mio spettatore si alzi dopo 85 minuti e abbia un'idea più definita perché quell’artista è così grande o importante e saper osservare, e capire, le sue opere in modo più completo.”

Pare una missione didattica la sua.
“In un certo senso il fine è anche educativo. Mi interessa che l’audience capisca e conosca meglio. E’ meraviglioso vedere che milioni di persone negli angoli più disparati del pianeta scoprano con il cinema l’arte e l’esempio che questa può rappresentare per l’umanità.”

Un'audience globale, un mezzo antico… il cinema.
“Sì il cinema come dicevo ci rende indipendenti dalle logiche della tv. Certo sono alchimie finanziarie anche complesse da gestire, se viste a livello di singolo film: c’è molto lavoro, i diritti tv, homevideo e digital (Netflix ndr) ancora non danno una valorizzazione adeguata al prodotto.”

Pensa che in futuro nascerà una commistione tra mostre di opere e  mostre “experience”?
“Non lo so. Amo la tecnologia come abilitazione. Oggi possiamo realizzare a costi contenuti moltissime cose. Ma non sono un fan della tecnologia per la tecnologia: 3D, proiezioni immersive, experience. Va tutto bene se aggiunge qualcosa alla narrazione, se permette l’interazione tra il pubblico, l’artista, le opere in modo diverso, più ravvicinato, interattivo. Se invece è fine a se stessa è un modo come un altro per fare spettacolo. Un’altra cosa.”

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