Storia di un capolavoro nei secoli
Demetrio Paparoni: l’Ultima Cena di Leonardo da Andy Warhol ad Anish Kapoor
Yue Minjun, Digitalized Survival, 2019, Acrilico su tela, 346 x 190 cm | Courtesy of the Artist & Fondazione Stelline, Milano
Francesca Grego
02/07/2019
Milano - A meno di un ventennio dalla sua esecuzione l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci versava già in uno stato di profondo degrado: al suo posto non si scorgeva che “una macchia abbagliata”, come scrisse Giorgio Vasari. Ma nei suoi 521 anni di vita quella macchia ha saputo sopravvivere a restauri maldestri, all’apertura violenta di porte e finestre, allo sfregio delle truppe francesi che nel 1721 adibirono a stalla il refettorio di Santa Maria delle Grazie, ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, per trasformarsi in un’icona d’arte dal valore universale.
Da Andy Warhol ad Andres Serrano, da David LaChapelle a Wang Guangyi, artisti dei più svariati orientamenti e provenienze geografiche si sono confrontati con il suo richiamo: tutt’altro che un capolavoro inavvicinabile, il Cenacolo è fonte di ispirazione, porta aperta sul mistero, alfabeto di metacomunicazioni rese efficaci dalla sua formidabile popolarità nell’immaginario collettivo.
Ma qual è il potere nascosto in quest’opera tanto delicata? È sempre stato così? Per quali vie gli autori contemporanei si sono addentrati nel grande dipinto di Santa Maria delle Grazie?
Lo abbiamo chiesto a Demetrio Paparoni, curatore della mostra L’Ultima Cena dopo Leonardo: un viaggio nell’attualità del Cenacolo attraverso il lavoro di sei noti artisti dei nostri giorni, allestito a Milano presso la Fondazione Stelline che nel 1986, a due passi dall’opera originale, ospitò la scandalosa e memorabile serie Last Supper di Warhol.
§
Wang Guangyi, The Last Supper (New Religion), 2011, Particolare, Olio su tela, 1600 x 400 cm | Courtesy of the Artist and Fondazione Stelline, Milano
“Nella prima metà del Novecento gli artisti erano più interessati al linguaggio che alla narrazione. Così il racconto dell’Ultima Cena è stato affrontato in casi sporadici e non riconducibili al dipinto murale di Leonardo, come accade in due opere di Paul Gauguin ed Emil Nolde. La dichiarata cesura delle avanguardie storiche nei confronti dell’arte del passato rispecchiava la necessità dell’uomo e dell’artista del Novecento di dimostrarsi profondamente diverso da chi lo aveva preceduto, di essere al passo con i radicali cambiamenti della società di quel tempo. Queste idee avrebbero avuto un’influenza determinante fino agli anni Settanta”, spiega Paparoni.
“Contrariamente alla Gioconda, che nel 1919 Duchamp aveva trasformato in icona del modernismo aggiungendole i baffi, per molto tempo pochi prestarono attenzione al Cenacolo”, continua il curatore. “La prima grande opera moderna che affronta il tema è Il Sacramento dell’Ultima Cena di Salvador Dalì, grande appassionato di Leonardo, che nel 1955 reinterpreta in chiave mistica il capolavoro di Santa Maria delle Grazie. Dalì riprende il Cenacolo con la pretesa di mostrare come l’autore avrebbe dipinto quello stesso soggetto se fosse vissuto tra la prima e la seconda metà del Novecento, ma la sua personalità finisce per sovrapporsi a quella di Leonardo.
In seguito, tra gli anni Sessanta e Settanta, artisti come Shūsaku Arakawa e Mary Beth Edelson mostrano un interesse concettuale per Leonardo da Vinci e per l’Ultima Cena. Nel nuovo clima postmoderno, si fa strada l’idea che tutta l’arte sia infestata da altra arte. È la tesi di Art about Art, una mostra curata da Jean Lipman e Richard Marshall per il Whitney Museum di New York, che nel 1978 individua riferimenti alla storia dell’arte nelle opere dei maggiori protagonisti della scena statunitense contemporanea”.
È qui che entra in gioco Andy Warhol?
“La vera svolta arriva con le Last Supper realizzate da Warhol nel 1986. È con Warhol che il Cenacolo diventa icona della contemporaneità. Sia attraverso un’estetica pop sia attraverso la ripetizione e la produzione di opere monumentali Warhol fa di quel soggetto un’immagine di massa: si è calcolato che compresi i multipli e i volti del Cristo lo abbia ripetuto 448 volte. Una delle opere appartenenti a questa serie (Red) è addirittura più grande dell’originale. Warhol vuole farci percepire Leonardo come un nostro contemporaneo: grazie a questo salto concettuale, in poco tempo il dipinto di Santa Maria delle Grazie diventa oggetto dell’attenzione da parte di molti altri artisti”.
Può un artista accostarsi all’Ultima Cena con rispetto, ma senza esserne schiacciato? Che cosa può aggiungere con la sua opera alla nostra esperienza del capolavoro di Leonardo?
“L’Ultima Cena iniziò a deteriorarsi quando Leonardo era ancora in vita. È grazie agli studi dell’autore e alle varie copie e rivisitazioni che oggi possiamo avere un’idea di come potesse essere l’opera appena completata. In tempi recenti con il restauro di Pinin Brambilla Barcilon siamo approdati a una versione del dipinto che, considerata la sua storia travagliata, più che mostrarci l’opera com’era ce ne dà un’idea. Come testimoniano le contestazione dell’ArtWatch e di alcuni studiosi, non c’è restauro che possa riportarci all’originale.
Anish Kapoor ha detto: ‘Leonardo rimuove la pelle e guarda all’interno’. Perciò l’unica possibilità concessa agli artisti contemporanei di accostarsi all’opera del maestro rispettandone la lezione non è ricalcarne fedelmente la narrazione, le figure, l’impianto, ma portare l’immagine fuori dall’interpretazione letterale per dare vita a ‘concetti che non si vedono con gli occhi’, come scrisse Goethe a proposito della rappresentazione leonardesca dell’episodio dei Vangeli. L’Ultima Cena racchiude ancora molti misteri. Lo smembramento del ‘corpo sacro’ del dipinto ad opera degli artisti può regalarci infinite rivelazioni”.
Quello della pelle, del corpo e dello scavo nell’invisibile è un tema ampiamente presente nella mostra da te curata per Fondazione Stelline. Come è stato sviluppato concretamente dagli artisti?
“La pittura è pelle. Sempre. La pelle nasconde le nostre interiora come la pittura protegge il supporto che la copre. È la lacerazione a mettere in contatto i due piani: l’addomesticato e l’indomito. Sono parole di Nicola Samorì, autore di una delle opere che meglio rappresentano questa tendenza. Per il suo Interno assoluto (2019) ha scelto un supporto di rame industriale. Qui ha tracciato a olio il disegno della scena leonardesca su cui ha fatto gocciolare zolfo variamente diluito per modulare la reazione del metallo, lasciando che si sprigionassero il giallo, il rosa, il verde, il bruno, l’arancione, il viola, il nero violaceo. Al centro la pelle scura e raggrinzita del Cristo pende letteralmente, richiamando alla mente il Bue macellato di Rembrandt, da sempre associato alla più cruenta delle crocifissioni. Privato della sua carne, Gesù si trasforma in una sagoma di luce: di lui rimane solo il bagliore della lastra di rame, che ci trasmette il senso sacro delle antiche icone.
Il legame di quest’opera con il Cenacolo di Santa Maria delle Grazie è evidente anche nella corsa verso l’informe che l’artista persegue cogliendo la bellezza insita nella parete sgretolata, nelle macchie di muffa, nell’inevitabile decadimento di tutto ciò che vive. A definire l’ultimo pasto di Cristo sembrano essere quelle stesse muffe che hanno aggredito l’opera di Leonardo. La pratica artistica di Samorì trova il suo momento di verità nello svelamento di ciò che sta sotto lo strato di pittura. Per quanto possa sembrare il contrario, Samorì non apre ferite sui dipinti per lasciarsi andare allo sfregio: il suo alterare immagini ricche di storia e di memorie è un modo di prendersene cura, di rivitalizzare la memoria collettiva assopita”.
Nicola Samorì, L'Ultima Cena (Interno assoluto), 2019, Particoare, Olio e zolfo su rame, 350 x 550 x 4.4 cm | Courtesy of the Artist and Fondazione Stelline, Milano
Di ferite parlano anche le opere di Anish Kapoor inserite nell’esposizione milanese...
“Anish Kapoor ha scelto di presentare Flayed II (2016 ) e Untitled (2015): rispettivamente l’immagine del sangue che impregna una tovaglia come una sindone e una scultura da parete in silicone, visione macroscopica di una ferita. Entrambe appartengono alla serie Keriah, che prende il nome dall’usanza ebraica di indossare un indumento strappato in segno di lutto: Kapoor riporta il rito al suo significato originario di lacerazione interiore. Nel contesto di una mostra dedicata all’Ultima Cena, queste opere si percepiscono come una prefigurazione del sacrificio che di lì a poco si sarebbe consumato.
Ferite sono anche le crepe in bella vista sul volto di Cristo dello statunitense Robert Longo, ripreso da una foto di inizio secolo - dunque assai prima dell’ultimo restauro del Cenacolo - e disegnato a carboncino in scala maggiore rispetto all’originale. Grazie all’uso di una carta da archivio, a prima vista l’opera potrebbe essere confusa con una fotografia, mentre il chiaroscuro esasperato mette in evidenza le fissurazioni della superficie pittorica. Alla base della cornice ricoperta di foglia d’oro è appesa una borsa con trenta monete d’argento, il prezzo del tradimento. La parete rossa su cui l’artista ha voluto che l’opera fosse esposta suggerisce infine l’idea del sangue e della Passione, ma anche il suicidio di Giuda dopo il misfatto. L’ingrandimento, l’effetto fotografico, l’enfasi sulle crepe mostrano ciò che a occhio nudo è invisibile sulla superficie del dipinto. Inoltre condensano in un unico istante l’intera storia del Cenacolo insieme alla vicenda di Cristo”.
Svelare l’invisibile fa parte del lavoro dei restauratori, chiamati periodicamente a decifrare le tracce della mano di Leonardo sotto strati di muffe, sporco e vernici posticce: quasi dei coautori dell’Ultima Cena...
“È il tema di Madame Pinin, l’opera dei Masbedo (Nicolò Masazza e Jacopo Bedogni) che ruota intorno all’importanza del prendersi cura delle testimonianze della cultura per mantenere in vita i valori fondamentali della nostra civiltà. Il video insiste per due minuti e 24 secondi sulle mani di Pinin Brambilla Barcilon, che per oltre 22 anni ha lavorato al restauro dell’Ultima Cena. Privo di sonoro, il video si concentra sul linguaggio espresso dalle mani della donna mentre indica alcuni dettagli del restauro su fotografie del dipinto. Come nell’opera di Leonardo gli apostoli parlano anche con le mani, qui sono le mani a raccontarci l’esperienza di cui Madame Pinin è stata protagonista nel tentare di riportarci a una versione del dipinto il più possibile vicina a quella voluta da Leonardo. Le mani della restauratrice diventano così, come spiegato dagli stessi artisti, il simbolo del complesso lavoro di svelamento e interpretazione dell’immagine. Basti pensare alla fisionomia dell’apostolo Matteo: non un vecchio con la barba, come appariva prima del restauro, ma un giovane dai riccioli biondi e dalla bocca carnosa”.
Pur rappresentando un’icona della cultura occidentale, il Cenacolo ha stimolato la creatività di artisti provenienti da tradizioni molto lontane dalla nostra…
“Già alla fine degli anni Sessanta in Next to the Last l’artista e architetto giapponese Shūsaku Arakawa aveva creato uno studio preparatorio immaginario dell’Ultima Cena, giocando alla maniera di Marcel Duchamp e sottolineando il carattere multidisciplinare del sapere di Leonardo da Vinci. Circa trenta anni dopo Hiroshi Sugimoto ha fotografato un modello tridimensionale dell’Ultima Cena al Museo delle Cere di Izu, in Giappone. Quando l’uragano Sandy si abbattè su New York, il magazzino del suo studio si allagò e la superficie dei cinque scatti dedicati al Cenacolo, attaccata da muffe e umidità, riemerse increspata, screpolata e scolorita, creando un ulteriore legame con l’opera di Leonardo. ‘Posso essere solo grato alla tempesta per aver sottoposto il mio lavoro a uno stress di mezzo millennio in così poco tempo’, commentò in seguito l’artista, che, come indica il titolo The Last Supper. Act of God, vide nell’incidente un intervento divino.
L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci ha avuto particolare fortuna anche nell’arte cinese del nostro millennio. Zeng Fanzhi, per esempio, ne ha realizzato una versione in cui i tutti i personaggi indossano una maschera, mentre le parti scoperte del corpo, di un rosso vivo, evocano la carne e il sangue. Questo insolito banchetto a base di anguria è in realtà la rappresentazione del cambiamento avvenuto all’interno della socità cinese tra gli anni Ottanta e Novanta, quando una particolare forma di capitalismo si è insinuata nel paese producendo una profonda trasformazione. A differenza degli altri commensali che hanno al collo il fazzoletto rosso dei giovani pionieri comunisti, Giuda indossa una cravatta dorata: è l’inizio di un cambiamento che contagerà tutti”.
Zeng Fanzhi, Ultima Cena, 2001
Ci sono casi in cui l’Ultima Cena di Leonardo incontra le tecniche tradizionali locali?
“È quello che succede nel polittico The Last Supper di Wang Guangyi (2011), incluso nella mostra alla Fondazione Stelline. Un’opera monumentale composta da otto tele, dove l’immagine del Cenacolo è stata tratteggiata su fondo nero con colore a olio rosso molto diluito, che ha lasciato sulla tela le sgocciolature tipiche della tecnica di pittura cinese Wulouhen. Da lontano le sagome delle figure umane evocano quelle delle montagne dei paesaggi tradizionali cinesi. In questo modo l’artista ha voluto mostrare che l’esperienza spirituale trasmessa dai pittori cinesi nel paesaggio non è diversa da quella che i loro omologhi occidentali veicolano attraverso la pittura a tema religioso. L’opera appartiene al ciclo di grandi dipinti New Religion – Guides, in cui Wang Guangyi adotta l’effetto del negativo fotografico. I padri del comunismo sono posti sullo stesso piano di temi e figure delle Cristianità. Marx, Stalin, Lenin, Mao, Giovanni XXIII o il Cristo morto di Mantegna diventano parti interscambiabili di un’unica grande rappresentazione del pensiero umano: raffigurati come idoli, mettono in evidenza che ci si può porre dinanzi all’immagine di un leader politico con lo stesso atteggiamento con cui ci si accosta a un’icona religiosa, partendo dal presupposto che i programmi politici rivoluzionari di emancipazione degli oppressi hanno ereditato dalla promessa di salvezza del Cristianesimo, in forme diverse, la stessa speranza di liberazione”.
Qual è invece la lettura di Yue Minjun, che ha realizzato un’opera sul tema proprio in occasione della mostra alle Stelline?
“In modo molto meno marcato di Wang Guangyi, anche Yue Minjun cita la tecnica del Wulouhen nel suo dipinto Digitalized Survival (2019). Qui l’artista prende a modello una delle tante riproduzioni fotografiche che includono la cornice baccellata sopra il dipinto e la porta attraverso la quale i monaci entravano nel refettorio. Cristo e gli apostoli sono sostituiti con dei numeri privi di significato, che ricordano come l’umanità sia sempre stata guidata da fattori inconoscibili. Svuotata dalla presenza umana, la scena si apre a infinite possibilità di azione. Lasciata nel dipinto come se l’avesse pensata Leonardo, la porta indica da una parte i concetti di entrata e uscita, dentro e fuori, come ha dichiarato lo stesso artista, dall’altra pone l’accento su quella che Goethe indicò come ‘l’inizio della vera rovina del dipinto’: l’apertura della porta, infatti, distrusse i piedi di Cristo e di alcuni apostoli, fece crollare la superficie pittorica in molti punti e i pezzi furono riattaccati con dei chiodi. Questo spiega il senso del titolo Digitalized Survival: come nel caso del Cenacolo, che ha resistito ai tanti traumi subiti ma non sappiamo per quanto tempo potrà andare avanti, anche il futuro dell’umanità appare all’artista misterioso e imprevedibile”.
Per approfondire il personaggio e conoscere da vicino la mente del genio, attendiamo l'uscita del film Io, Leonardo, dove l’artista, scienziato e inventore toscano avrà il volto di Luca Argentero. Il viaggio cinematografico nella mente e tra le opere del genio, prodotto da Sky e Progetto Immagine, sarà nelle sale, distribuito da Lucky Red, a partire dal 2 ottobre 2019.
Da Andy Warhol ad Andres Serrano, da David LaChapelle a Wang Guangyi, artisti dei più svariati orientamenti e provenienze geografiche si sono confrontati con il suo richiamo: tutt’altro che un capolavoro inavvicinabile, il Cenacolo è fonte di ispirazione, porta aperta sul mistero, alfabeto di metacomunicazioni rese efficaci dalla sua formidabile popolarità nell’immaginario collettivo.
Ma qual è il potere nascosto in quest’opera tanto delicata? È sempre stato così? Per quali vie gli autori contemporanei si sono addentrati nel grande dipinto di Santa Maria delle Grazie?
Lo abbiamo chiesto a Demetrio Paparoni, curatore della mostra L’Ultima Cena dopo Leonardo: un viaggio nell’attualità del Cenacolo attraverso il lavoro di sei noti artisti dei nostri giorni, allestito a Milano presso la Fondazione Stelline che nel 1986, a due passi dall’opera originale, ospitò la scandalosa e memorabile serie Last Supper di Warhol.
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Wang Guangyi, The Last Supper (New Religion), 2011, Particolare, Olio su tela, 1600 x 400 cm | Courtesy of the Artist and Fondazione Stelline, Milano
“Nella prima metà del Novecento gli artisti erano più interessati al linguaggio che alla narrazione. Così il racconto dell’Ultima Cena è stato affrontato in casi sporadici e non riconducibili al dipinto murale di Leonardo, come accade in due opere di Paul Gauguin ed Emil Nolde. La dichiarata cesura delle avanguardie storiche nei confronti dell’arte del passato rispecchiava la necessità dell’uomo e dell’artista del Novecento di dimostrarsi profondamente diverso da chi lo aveva preceduto, di essere al passo con i radicali cambiamenti della società di quel tempo. Queste idee avrebbero avuto un’influenza determinante fino agli anni Settanta”, spiega Paparoni.
“Contrariamente alla Gioconda, che nel 1919 Duchamp aveva trasformato in icona del modernismo aggiungendole i baffi, per molto tempo pochi prestarono attenzione al Cenacolo”, continua il curatore. “La prima grande opera moderna che affronta il tema è Il Sacramento dell’Ultima Cena di Salvador Dalì, grande appassionato di Leonardo, che nel 1955 reinterpreta in chiave mistica il capolavoro di Santa Maria delle Grazie. Dalì riprende il Cenacolo con la pretesa di mostrare come l’autore avrebbe dipinto quello stesso soggetto se fosse vissuto tra la prima e la seconda metà del Novecento, ma la sua personalità finisce per sovrapporsi a quella di Leonardo.
In seguito, tra gli anni Sessanta e Settanta, artisti come Shūsaku Arakawa e Mary Beth Edelson mostrano un interesse concettuale per Leonardo da Vinci e per l’Ultima Cena. Nel nuovo clima postmoderno, si fa strada l’idea che tutta l’arte sia infestata da altra arte. È la tesi di Art about Art, una mostra curata da Jean Lipman e Richard Marshall per il Whitney Museum di New York, che nel 1978 individua riferimenti alla storia dell’arte nelle opere dei maggiori protagonisti della scena statunitense contemporanea”.
È qui che entra in gioco Andy Warhol?
“La vera svolta arriva con le Last Supper realizzate da Warhol nel 1986. È con Warhol che il Cenacolo diventa icona della contemporaneità. Sia attraverso un’estetica pop sia attraverso la ripetizione e la produzione di opere monumentali Warhol fa di quel soggetto un’immagine di massa: si è calcolato che compresi i multipli e i volti del Cristo lo abbia ripetuto 448 volte. Una delle opere appartenenti a questa serie (Red) è addirittura più grande dell’originale. Warhol vuole farci percepire Leonardo come un nostro contemporaneo: grazie a questo salto concettuale, in poco tempo il dipinto di Santa Maria delle Grazie diventa oggetto dell’attenzione da parte di molti altri artisti”.
Può un artista accostarsi all’Ultima Cena con rispetto, ma senza esserne schiacciato? Che cosa può aggiungere con la sua opera alla nostra esperienza del capolavoro di Leonardo?
“L’Ultima Cena iniziò a deteriorarsi quando Leonardo era ancora in vita. È grazie agli studi dell’autore e alle varie copie e rivisitazioni che oggi possiamo avere un’idea di come potesse essere l’opera appena completata. In tempi recenti con il restauro di Pinin Brambilla Barcilon siamo approdati a una versione del dipinto che, considerata la sua storia travagliata, più che mostrarci l’opera com’era ce ne dà un’idea. Come testimoniano le contestazione dell’ArtWatch e di alcuni studiosi, non c’è restauro che possa riportarci all’originale.
Anish Kapoor ha detto: ‘Leonardo rimuove la pelle e guarda all’interno’. Perciò l’unica possibilità concessa agli artisti contemporanei di accostarsi all’opera del maestro rispettandone la lezione non è ricalcarne fedelmente la narrazione, le figure, l’impianto, ma portare l’immagine fuori dall’interpretazione letterale per dare vita a ‘concetti che non si vedono con gli occhi’, come scrisse Goethe a proposito della rappresentazione leonardesca dell’episodio dei Vangeli. L’Ultima Cena racchiude ancora molti misteri. Lo smembramento del ‘corpo sacro’ del dipinto ad opera degli artisti può regalarci infinite rivelazioni”.
Quello della pelle, del corpo e dello scavo nell’invisibile è un tema ampiamente presente nella mostra da te curata per Fondazione Stelline. Come è stato sviluppato concretamente dagli artisti?
“La pittura è pelle. Sempre. La pelle nasconde le nostre interiora come la pittura protegge il supporto che la copre. È la lacerazione a mettere in contatto i due piani: l’addomesticato e l’indomito. Sono parole di Nicola Samorì, autore di una delle opere che meglio rappresentano questa tendenza. Per il suo Interno assoluto (2019) ha scelto un supporto di rame industriale. Qui ha tracciato a olio il disegno della scena leonardesca su cui ha fatto gocciolare zolfo variamente diluito per modulare la reazione del metallo, lasciando che si sprigionassero il giallo, il rosa, il verde, il bruno, l’arancione, il viola, il nero violaceo. Al centro la pelle scura e raggrinzita del Cristo pende letteralmente, richiamando alla mente il Bue macellato di Rembrandt, da sempre associato alla più cruenta delle crocifissioni. Privato della sua carne, Gesù si trasforma in una sagoma di luce: di lui rimane solo il bagliore della lastra di rame, che ci trasmette il senso sacro delle antiche icone.
Il legame di quest’opera con il Cenacolo di Santa Maria delle Grazie è evidente anche nella corsa verso l’informe che l’artista persegue cogliendo la bellezza insita nella parete sgretolata, nelle macchie di muffa, nell’inevitabile decadimento di tutto ciò che vive. A definire l’ultimo pasto di Cristo sembrano essere quelle stesse muffe che hanno aggredito l’opera di Leonardo. La pratica artistica di Samorì trova il suo momento di verità nello svelamento di ciò che sta sotto lo strato di pittura. Per quanto possa sembrare il contrario, Samorì non apre ferite sui dipinti per lasciarsi andare allo sfregio: il suo alterare immagini ricche di storia e di memorie è un modo di prendersene cura, di rivitalizzare la memoria collettiva assopita”.
Nicola Samorì, L'Ultima Cena (Interno assoluto), 2019, Particoare, Olio e zolfo su rame, 350 x 550 x 4.4 cm | Courtesy of the Artist and Fondazione Stelline, Milano
Di ferite parlano anche le opere di Anish Kapoor inserite nell’esposizione milanese...
“Anish Kapoor ha scelto di presentare Flayed II (2016 ) e Untitled (2015): rispettivamente l’immagine del sangue che impregna una tovaglia come una sindone e una scultura da parete in silicone, visione macroscopica di una ferita. Entrambe appartengono alla serie Keriah, che prende il nome dall’usanza ebraica di indossare un indumento strappato in segno di lutto: Kapoor riporta il rito al suo significato originario di lacerazione interiore. Nel contesto di una mostra dedicata all’Ultima Cena, queste opere si percepiscono come una prefigurazione del sacrificio che di lì a poco si sarebbe consumato.
Ferite sono anche le crepe in bella vista sul volto di Cristo dello statunitense Robert Longo, ripreso da una foto di inizio secolo - dunque assai prima dell’ultimo restauro del Cenacolo - e disegnato a carboncino in scala maggiore rispetto all’originale. Grazie all’uso di una carta da archivio, a prima vista l’opera potrebbe essere confusa con una fotografia, mentre il chiaroscuro esasperato mette in evidenza le fissurazioni della superficie pittorica. Alla base della cornice ricoperta di foglia d’oro è appesa una borsa con trenta monete d’argento, il prezzo del tradimento. La parete rossa su cui l’artista ha voluto che l’opera fosse esposta suggerisce infine l’idea del sangue e della Passione, ma anche il suicidio di Giuda dopo il misfatto. L’ingrandimento, l’effetto fotografico, l’enfasi sulle crepe mostrano ciò che a occhio nudo è invisibile sulla superficie del dipinto. Inoltre condensano in un unico istante l’intera storia del Cenacolo insieme alla vicenda di Cristo”.
Svelare l’invisibile fa parte del lavoro dei restauratori, chiamati periodicamente a decifrare le tracce della mano di Leonardo sotto strati di muffe, sporco e vernici posticce: quasi dei coautori dell’Ultima Cena...
“È il tema di Madame Pinin, l’opera dei Masbedo (Nicolò Masazza e Jacopo Bedogni) che ruota intorno all’importanza del prendersi cura delle testimonianze della cultura per mantenere in vita i valori fondamentali della nostra civiltà. Il video insiste per due minuti e 24 secondi sulle mani di Pinin Brambilla Barcilon, che per oltre 22 anni ha lavorato al restauro dell’Ultima Cena. Privo di sonoro, il video si concentra sul linguaggio espresso dalle mani della donna mentre indica alcuni dettagli del restauro su fotografie del dipinto. Come nell’opera di Leonardo gli apostoli parlano anche con le mani, qui sono le mani a raccontarci l’esperienza di cui Madame Pinin è stata protagonista nel tentare di riportarci a una versione del dipinto il più possibile vicina a quella voluta da Leonardo. Le mani della restauratrice diventano così, come spiegato dagli stessi artisti, il simbolo del complesso lavoro di svelamento e interpretazione dell’immagine. Basti pensare alla fisionomia dell’apostolo Matteo: non un vecchio con la barba, come appariva prima del restauro, ma un giovane dai riccioli biondi e dalla bocca carnosa”.
Pur rappresentando un’icona della cultura occidentale, il Cenacolo ha stimolato la creatività di artisti provenienti da tradizioni molto lontane dalla nostra…
“Già alla fine degli anni Sessanta in Next to the Last l’artista e architetto giapponese Shūsaku Arakawa aveva creato uno studio preparatorio immaginario dell’Ultima Cena, giocando alla maniera di Marcel Duchamp e sottolineando il carattere multidisciplinare del sapere di Leonardo da Vinci. Circa trenta anni dopo Hiroshi Sugimoto ha fotografato un modello tridimensionale dell’Ultima Cena al Museo delle Cere di Izu, in Giappone. Quando l’uragano Sandy si abbattè su New York, il magazzino del suo studio si allagò e la superficie dei cinque scatti dedicati al Cenacolo, attaccata da muffe e umidità, riemerse increspata, screpolata e scolorita, creando un ulteriore legame con l’opera di Leonardo. ‘Posso essere solo grato alla tempesta per aver sottoposto il mio lavoro a uno stress di mezzo millennio in così poco tempo’, commentò in seguito l’artista, che, come indica il titolo The Last Supper. Act of God, vide nell’incidente un intervento divino.
L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci ha avuto particolare fortuna anche nell’arte cinese del nostro millennio. Zeng Fanzhi, per esempio, ne ha realizzato una versione in cui i tutti i personaggi indossano una maschera, mentre le parti scoperte del corpo, di un rosso vivo, evocano la carne e il sangue. Questo insolito banchetto a base di anguria è in realtà la rappresentazione del cambiamento avvenuto all’interno della socità cinese tra gli anni Ottanta e Novanta, quando una particolare forma di capitalismo si è insinuata nel paese producendo una profonda trasformazione. A differenza degli altri commensali che hanno al collo il fazzoletto rosso dei giovani pionieri comunisti, Giuda indossa una cravatta dorata: è l’inizio di un cambiamento che contagerà tutti”.
Zeng Fanzhi, Ultima Cena, 2001
Ci sono casi in cui l’Ultima Cena di Leonardo incontra le tecniche tradizionali locali?
“È quello che succede nel polittico The Last Supper di Wang Guangyi (2011), incluso nella mostra alla Fondazione Stelline. Un’opera monumentale composta da otto tele, dove l’immagine del Cenacolo è stata tratteggiata su fondo nero con colore a olio rosso molto diluito, che ha lasciato sulla tela le sgocciolature tipiche della tecnica di pittura cinese Wulouhen. Da lontano le sagome delle figure umane evocano quelle delle montagne dei paesaggi tradizionali cinesi. In questo modo l’artista ha voluto mostrare che l’esperienza spirituale trasmessa dai pittori cinesi nel paesaggio non è diversa da quella che i loro omologhi occidentali veicolano attraverso la pittura a tema religioso. L’opera appartiene al ciclo di grandi dipinti New Religion – Guides, in cui Wang Guangyi adotta l’effetto del negativo fotografico. I padri del comunismo sono posti sullo stesso piano di temi e figure delle Cristianità. Marx, Stalin, Lenin, Mao, Giovanni XXIII o il Cristo morto di Mantegna diventano parti interscambiabili di un’unica grande rappresentazione del pensiero umano: raffigurati come idoli, mettono in evidenza che ci si può porre dinanzi all’immagine di un leader politico con lo stesso atteggiamento con cui ci si accosta a un’icona religiosa, partendo dal presupposto che i programmi politici rivoluzionari di emancipazione degli oppressi hanno ereditato dalla promessa di salvezza del Cristianesimo, in forme diverse, la stessa speranza di liberazione”.
Qual è invece la lettura di Yue Minjun, che ha realizzato un’opera sul tema proprio in occasione della mostra alle Stelline?
“In modo molto meno marcato di Wang Guangyi, anche Yue Minjun cita la tecnica del Wulouhen nel suo dipinto Digitalized Survival (2019). Qui l’artista prende a modello una delle tante riproduzioni fotografiche che includono la cornice baccellata sopra il dipinto e la porta attraverso la quale i monaci entravano nel refettorio. Cristo e gli apostoli sono sostituiti con dei numeri privi di significato, che ricordano come l’umanità sia sempre stata guidata da fattori inconoscibili. Svuotata dalla presenza umana, la scena si apre a infinite possibilità di azione. Lasciata nel dipinto come se l’avesse pensata Leonardo, la porta indica da una parte i concetti di entrata e uscita, dentro e fuori, come ha dichiarato lo stesso artista, dall’altra pone l’accento su quella che Goethe indicò come ‘l’inizio della vera rovina del dipinto’: l’apertura della porta, infatti, distrusse i piedi di Cristo e di alcuni apostoli, fece crollare la superficie pittorica in molti punti e i pezzi furono riattaccati con dei chiodi. Questo spiega il senso del titolo Digitalized Survival: come nel caso del Cenacolo, che ha resistito ai tanti traumi subiti ma non sappiamo per quanto tempo potrà andare avanti, anche il futuro dell’umanità appare all’artista misterioso e imprevedibile”.
Per approfondire il personaggio e conoscere da vicino la mente del genio, attendiamo l'uscita del film Io, Leonardo, dove l’artista, scienziato e inventore toscano avrà il volto di Luca Argentero. Il viaggio cinematografico nella mente e tra le opere del genio, prodotto da Sky e Progetto Immagine, sarà nelle sale, distribuito da Lucky Red, a partire dal 2 ottobre 2019.
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