A Pordenone dal 3 marzo al 27 maggio
La poesia degli occhi in 150 scatti di Danilo De Marco, l'esploratore di sguardi
Danilo De Marco, Verso il mercato di Benito Juarez, Huasteca, Messico, 1997. Foto: © Danilo De Marco
Samantha De Martin
16/02/2018
Pordenone - “Dammi gli occhi. Adesso respira con gli occhi”. Dice così Danilo De Marco quando fotografa i migranti o i partigiani. Di questi ultimi ne ha immortalati oltre mille, come lui stesso ammette, nel corso della sua carriera, uomini e donne che ha frequentato per tanti anni, in mezzo ai quali è vissuto, “ultimi rappresentanti di quel raro momento della società, in cui qualcuno ha tentato di lottare epicamente per tutti, e non solo per se stesso, per uscire dalla dittatura”.
Li ha ritratti con “un obiettivo sbagliato” a 50 centimetri di distanza da loro, con il volto a fuoco e gli occhi a bucare la macchina. Ne ha immortalati tanti di soggetti, questo giornalista e reporter che circa 30 anni fa ha iniziato i suoi viaggi solitari, sempre come inviato di se stesso «e senza la ‘tutela’ economica di alcuna testata giornalistica, o l’assistenza interessata di mega agenzie fotografiche». Ha esplorato mezzo mondo, De Marco - dalla Cina al Messico, dalle montagne dei curdi, in Turchia e Iraq, allo Sri Lanka, aggirandosi fra la resistenza del popolo Tamil e le donne del tè, tra le raccoglitrici di alghe di Zanzibar e i ‘pendolari della notte’ in Uganda - alla ricerca di anime e volti, con il suo obiettivo che non ingoia quel che inquadra tenendolo per sé, ma che costituisce solo “un umile mediatore fra gli occhi di qui e gli occhi di là”. Alcuni di questi lavori, 150 in particolare, realizzati tra comunità e popoli delle periferie estreme del mondo, saranno al centro della retrospettiva Defigurazione. I tuoi occhi per vedermi, a cura di Arturo Carlo Quintavalle e in programma dal 3 marzo al 27 maggio alla Galleria Harry Bertoia di Pordenone.
«Gli occhi e il volto costituiscono il primo incontro che abbiamo con chiunque» spiega De Marco. Ed in effetti, a osservarle bene, le immagini della popolazione Kurda in eterna resistenza, delle lavoratrici di canna da zucchero in India, di un’indigena messicana intenta a recarsi al mercato con tra le braccia la propria gallina, o ancora delle mondine conosciute a Zanzibar, hanno davvero un qualcosa di magnetico. I loro occhi parlano e sembrano recuperare quel legame indissolubile che i Greci concepivano tra la vista e la conoscenza. Conoscenza dell’anima, in questo caso, che sembra emergere da questi scatti rigorosamente in bianco e nero, in una sorta di “maieutica dell’obiettivo”.
Un percorso provocatorio fatto di spaesamento e sbalzi bruschi, tenuti insieme dalla forte umanità che la ricerca di De Marco trasmette, “defigurando”, andando oltre il ritratto ‘di figura' per comporre una fotografia che assurge a strumento di introspezione, a invito a comprendere l’ “entità” umana, interpretando la persona e il significato del suo percorso di vita.
Per aiutarci ad entrare all’interno della sua “defigurazione” De Marco cita il saggio sulla scrittura di Antonin Artaud, Samuel Beckett e Henri Michaux dal titolo La défiguration, a proposito del quale Évelyne Grossman dice: «La defigurazione è nel contempo de-creazione e ri-creazione permanente delle forme provvisorie e fragili di sé e dell’altro».
Ma accanto a questi soggetti, sconosciuti all’osservatore, “esplorati” dal fotografo attraverso un percorso che, come spiega «richiede tempo e pazienza, ma che consente alla fine a chi scatta di diventare uno di loro» troviamo anche scrittori, storici, poeti, intellettuali, dal friulano Federico Tavan a Jacques Le Goff, da Claudio Magris a Carlo Ginzburg. Eppure De Marco non li sceglie tutti come soggetti dei suoi lavori. Li incontra a un primo appuntamento, alcuni li rivede in un secondo momento per fotografarli, altri no. «Non tutti gli incontri esplodono» dice.
«Incontrare gli autori - spiega - per me è sempre stato fondamentale per capire quanto di ‘coerenza’ ci fosse tra l’opera e il suo artefice. Il fine non è mai stato quello di realizzare una collezione di ‘figurine’ di celebrità. Proprio per questo tra le donne e gli uomini che ho incontrato e fotografato ci sono anche i volti di sconosciuti o di coloro che sono rimasti ai margini della notorietà e della fama, per mancati incontri o per volontà meno decise. Altre volte per scelta».
Ma che cosa hanno in comune questi soggetti?
«Sicuramente - risponde De Marco - condividono il fatto di essere bipedi, di camminare su questa stessa terra e di essere oggetto di una casualità della nascita. Carlo Ginzburg, potrebbe essere nato, ad esempio in Uganda e potrebbe magari essere diventato il bambino ugandese che sta con lui nella foto e viceversa».
Non sempre è facile entrare in contatto con i soggetti. «È importante non dare l’impressione di star rubando qualcosa, ma piuttosto di star donando, attraverso uno scambio di reciproca fiducia».
Non si tratta di ritratti, ma di “figure”. Un termine caro al fotografo, verso il quale lui stesso ammette di aver maturato una bonaria ossessione dopo l’incontro con il libro di Gilles Deleuze dal titolo Logica della sensazione.
«Le esplorazioni di De Marco - spiega il curatore della mostra, Carlo Arturo Quintavalle, sono il frutto di una lunga immersione in diversi contesti, nei quali il fotografo vuole essere accolto come parte di un gruppo, imparando a conoscere con delicatezza e rispetto le persone. Più che immagini rubate, le sue sono esperienze delle singole persone. Dietro l’apparente realismo dei suoi lavori si cela qualcosa di molto più complesso. Dietro la volontà di fotografare ad esempio oltre mille partigiani di diverse esperienze e nazionalità c’è un’esperienza che va ben oltre il documento fotografico. Una cosa così imprendibile come lo sguardo diventa una ragione di vita per il fotografo e di continuità di esistenza per le persone immortalate. Negli scatti che mettono a fuoco gli occhi dei partigiani c’è forse l’idea di fotografare da vicino la vecchiaia della persona che mantiene la giovinezza delle idee, mentre nel fotografare gli intellettuali De Marco rompe la tradizionale iconografia del ritratto, giocando con l’immagine».
Sarà per questa complessità che si nasconde dietro i suoi lavori, che la chiacchierata al telefono con De Marco diventa sempre più difficile. Gli occhi sono nascosti da un freddo trasmettitore di voci. Si percepisce un momento in cui non si può più andare oltre con ulteriosi spiegazioni di senso.
È lo straordinario, ineffabile potere della fotografia, è la grandezza dell’arte.
Leggi anche:
• Danilo De Marco. Defigurazione. I tuoi occhi per vedermi
Li ha ritratti con “un obiettivo sbagliato” a 50 centimetri di distanza da loro, con il volto a fuoco e gli occhi a bucare la macchina. Ne ha immortalati tanti di soggetti, questo giornalista e reporter che circa 30 anni fa ha iniziato i suoi viaggi solitari, sempre come inviato di se stesso «e senza la ‘tutela’ economica di alcuna testata giornalistica, o l’assistenza interessata di mega agenzie fotografiche». Ha esplorato mezzo mondo, De Marco - dalla Cina al Messico, dalle montagne dei curdi, in Turchia e Iraq, allo Sri Lanka, aggirandosi fra la resistenza del popolo Tamil e le donne del tè, tra le raccoglitrici di alghe di Zanzibar e i ‘pendolari della notte’ in Uganda - alla ricerca di anime e volti, con il suo obiettivo che non ingoia quel che inquadra tenendolo per sé, ma che costituisce solo “un umile mediatore fra gli occhi di qui e gli occhi di là”. Alcuni di questi lavori, 150 in particolare, realizzati tra comunità e popoli delle periferie estreme del mondo, saranno al centro della retrospettiva Defigurazione. I tuoi occhi per vedermi, a cura di Arturo Carlo Quintavalle e in programma dal 3 marzo al 27 maggio alla Galleria Harry Bertoia di Pordenone.
«Gli occhi e il volto costituiscono il primo incontro che abbiamo con chiunque» spiega De Marco. Ed in effetti, a osservarle bene, le immagini della popolazione Kurda in eterna resistenza, delle lavoratrici di canna da zucchero in India, di un’indigena messicana intenta a recarsi al mercato con tra le braccia la propria gallina, o ancora delle mondine conosciute a Zanzibar, hanno davvero un qualcosa di magnetico. I loro occhi parlano e sembrano recuperare quel legame indissolubile che i Greci concepivano tra la vista e la conoscenza. Conoscenza dell’anima, in questo caso, che sembra emergere da questi scatti rigorosamente in bianco e nero, in una sorta di “maieutica dell’obiettivo”.
Un percorso provocatorio fatto di spaesamento e sbalzi bruschi, tenuti insieme dalla forte umanità che la ricerca di De Marco trasmette, “defigurando”, andando oltre il ritratto ‘di figura' per comporre una fotografia che assurge a strumento di introspezione, a invito a comprendere l’ “entità” umana, interpretando la persona e il significato del suo percorso di vita.
Per aiutarci ad entrare all’interno della sua “defigurazione” De Marco cita il saggio sulla scrittura di Antonin Artaud, Samuel Beckett e Henri Michaux dal titolo La défiguration, a proposito del quale Évelyne Grossman dice: «La defigurazione è nel contempo de-creazione e ri-creazione permanente delle forme provvisorie e fragili di sé e dell’altro».
Ma accanto a questi soggetti, sconosciuti all’osservatore, “esplorati” dal fotografo attraverso un percorso che, come spiega «richiede tempo e pazienza, ma che consente alla fine a chi scatta di diventare uno di loro» troviamo anche scrittori, storici, poeti, intellettuali, dal friulano Federico Tavan a Jacques Le Goff, da Claudio Magris a Carlo Ginzburg. Eppure De Marco non li sceglie tutti come soggetti dei suoi lavori. Li incontra a un primo appuntamento, alcuni li rivede in un secondo momento per fotografarli, altri no. «Non tutti gli incontri esplodono» dice.
«Incontrare gli autori - spiega - per me è sempre stato fondamentale per capire quanto di ‘coerenza’ ci fosse tra l’opera e il suo artefice. Il fine non è mai stato quello di realizzare una collezione di ‘figurine’ di celebrità. Proprio per questo tra le donne e gli uomini che ho incontrato e fotografato ci sono anche i volti di sconosciuti o di coloro che sono rimasti ai margini della notorietà e della fama, per mancati incontri o per volontà meno decise. Altre volte per scelta».
Ma che cosa hanno in comune questi soggetti?
«Sicuramente - risponde De Marco - condividono il fatto di essere bipedi, di camminare su questa stessa terra e di essere oggetto di una casualità della nascita. Carlo Ginzburg, potrebbe essere nato, ad esempio in Uganda e potrebbe magari essere diventato il bambino ugandese che sta con lui nella foto e viceversa».
Non sempre è facile entrare in contatto con i soggetti. «È importante non dare l’impressione di star rubando qualcosa, ma piuttosto di star donando, attraverso uno scambio di reciproca fiducia».
Non si tratta di ritratti, ma di “figure”. Un termine caro al fotografo, verso il quale lui stesso ammette di aver maturato una bonaria ossessione dopo l’incontro con il libro di Gilles Deleuze dal titolo Logica della sensazione.
«Le esplorazioni di De Marco - spiega il curatore della mostra, Carlo Arturo Quintavalle, sono il frutto di una lunga immersione in diversi contesti, nei quali il fotografo vuole essere accolto come parte di un gruppo, imparando a conoscere con delicatezza e rispetto le persone. Più che immagini rubate, le sue sono esperienze delle singole persone. Dietro l’apparente realismo dei suoi lavori si cela qualcosa di molto più complesso. Dietro la volontà di fotografare ad esempio oltre mille partigiani di diverse esperienze e nazionalità c’è un’esperienza che va ben oltre il documento fotografico. Una cosa così imprendibile come lo sguardo diventa una ragione di vita per il fotografo e di continuità di esistenza per le persone immortalate. Negli scatti che mettono a fuoco gli occhi dei partigiani c’è forse l’idea di fotografare da vicino la vecchiaia della persona che mantiene la giovinezza delle idee, mentre nel fotografare gli intellettuali De Marco rompe la tradizionale iconografia del ritratto, giocando con l’immagine».
Sarà per questa complessità che si nasconde dietro i suoi lavori, che la chiacchierata al telefono con De Marco diventa sempre più difficile. Gli occhi sono nascosti da un freddo trasmettitore di voci. Si percepisce un momento in cui non si può più andare oltre con ulteriosi spiegazioni di senso.
È lo straordinario, ineffabile potere della fotografia, è la grandezza dell’arte.
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