“Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto” al cinema: nelle sale il 25, 26 e 27 marzo

Adriano Giannini: come vi racconto Gauguin

Adriano Giannini. Courtesy of Nexo Digital
 

Francesca Grego

20/03/2019

Milano - “Pensavo che sarei andato a girare un film in Polinesia, invece sono rimasto a terra”, scherza Adriano Giannini dopo l’anteprima di “Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto”, il nuovo documentario prodotto da 3D e Nexo Digital su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta.
Ma il viaggio c’è, eccome, nel lungometraggio diretto da Claudio Poli e sceneggiato dallo stesso Moneta, che gli spettatori italiani vedranno al cinema il 25, il 26 e il 27 marzo: l’incredibile avventura esotica di un big dell’arte rivive nelle esplorazioni di chi, oltre 100 anni dopo, ha raggiunto le “sue” isole in cerca di tracce e testimonianze inedite. A intrecciare i fili di un doppio percorso di scoperta è proprio la voce calda di Giannini, narratore partecipe ed evocatore di mondi mai visti, ospite e guida di un sogno selvaggio che ha radici profonde nell’immaginario occidentale.
 
Si fa presto a dire “voce narrante”: non si tratta tanto di interpretare un personaggio, quanto di renderlo presente, di restituire le atmosfere della sua storia. Come sei arrivato a questo risultato?
“Intanto è stato determinante essere presente io stesso, anche fisicamente, nel film: come una sorta di Alberto Angela, per intenderci, che introduce e tiene insieme i diversi piani del racconto. Sembra semplice ma è un compito che richiede una tecnica tutta sua. Ti ritrovi su un set fatto di luci, scenografie, collaboratori, nella posizione di un attore davanti alla macchina da presa… E per la prima volta invece di nasconderti dietro una maschera devi interpretare te stesso, un’invenzione di te che racconta la storia di un altro, per giunta guardando direttamente l’obiettivo! Devo ammettere che per le prime due ore la cosa mi ha confuso: è esattamente il contrario di quello che faccio da anni.
Nel lavoro di narrazione vera e propria mi hanno aiutato sia le immagini che il testo: essendo anche un doppiatore sono abituato a raccontare con la voce. Certo una buona dose di sensibilità era indispensabile, così come la voglia di entrare dentro il sogno che ha animato questo personaggio rivoluzionario”.
 
Che cosa ti ha colpito nelle vicende di Paul Gauguin?
“La forza che l’ha spinto a lasciare tutto - Parigi, la ricchezza, i suoi affetti, le comodità del progresso - e a partire alla scoperta dell’ignoto. In lui ho visto indolenza e inquietudine, ma allo stesso tempo una ricerca di verità, di essenzialità, di purezza: questi due sentimenti messi insieme hanno ispirato un atto di coraggio enorme. Cercare di capire quali stimoli possano aver innescato una decisione così radicale e provare a restituirli nel film è stata una bella sfida.
In realtà la figura di Gauguin non è poi così lontana da certe inquietudini che mi rappresentano: tutte le professioni artistiche ti portano in qualche modo a vivere fuori di casa, dalla società, dal quotidiano, da te stesso, in un mondo che non esiste ma che ti permette di guardare oltre i limiti della realtà. Lui è stato l’emblema di tutto questo: grazie alle sue inquietudini ha inventato l’arte moderna”.
 
Perché il pubblico dovrebbe andare a vedere “Gauguin a Tahiti”?
“Prima di tutto perché è un documentario fatto benissimo. Solo oggi, guardandolo per la prima volta sul grande schermo, mi rendo conto del risultato: un film davvero affascinante, con immagini spettacolari. Ne sono molto fiero.
Quanto ai contenuti, approfondire la storia di Gauguin significa aprire un invitante vaso di Pandora: è un soggetto che chiama in causa molti altri temi. Per esempio Gauguin ha anticipato l’arte e il pensiero del Novecento nel suo rapporto con l’inconscio, con il sogno, l’immaginifico”.
 
Personalmente che rapporto hai con la pittura e con l’arte?
“Un rapporto che è cambiato nel tempo. Quando lavoravo come operatore mi occupavo quotidianamente di immagini: come in pittura, c’era uno studio della luce, dell’inquadratura, della composizione. Guardando un’opera d’arte era frequente che pensassi al mio lavoro e viceversa. D’altronde, da quando è nato il cinema ha spesso trovato spunti nella pittura.
Più tardi, quando sono diventato un attore, ho potuto lasciar emergere un interesse più profondo, meno legato alla tecnica, di tipo personale e culturale. 'Gauguin a Tahiti' è stato un’esperienza interessante anche per questo”.
 
 Il tuo artista preferito?
“Gauguin, Gauguin, Gauguin”.
 
Che cosa pensi dell’amore scoppiato ultimamente tra arte, cinema e televisione?
“Un amore che esiste da sempre. La novità è che il documentario vive oggi un momento di splendore. Il mercato si è ampliato sia in termini geografici sia di piattaforme e di modalità di fruizione, ci sono più canali per raggiungere il pubblico e contenitori che vanno costantemente riempiti, possibilmente con contenuti di livello. Il documentario ha potuto inventarsi una nuova vita, sono sicuro che durerà a lungo”.
 
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