Fino al 2 settembre a Basilea

Bacon e Giacometti si incontrano alla Fondazione Beyeler

Francis Bacon, 7 Reece Mews Studio, London, 1998. Ph. Perry Ogden/DACS/Artimage © The Estate of Francis Bacon. All rights reserved / 2018, ProLitteris, Zurich
 

Samantha De Martin

02/05/2018

Mondo - L'irlandese e lo svizzero, amici e rivali in egual misura, accomunati da inaspettate analogie e capaci entrambi di imprimere un’impronta personalissima sugli esiti artistici del Novecento.
A pochi chilometri dal centro di Basilea, nel tempio luminoso nato dalla passione del collezionista Ernst Beyeler e consacrato all’arte da Renzo Piano, Francis Bacon e Alberto Giacometti condividono un dialogo inedito, protagonisti di uno spazio multimediale che offre un generoso e spettacolare affaccio sugli atelier dei due grandi maestri.
Due video avvolgenti proiettati sulle pareti e sul pavimento consentono al pubblico di immergersi nei due microcosmi (privatissimi) degli artisti - un luogo del caos da cui scaturisce arte sublime - ricostruiti in grandezza originale sulla base di alcune fotografie storiche.

Alcuni gessi originali dal lascito Giacometti, mai esposti prima, incontrano quattro grandi trittici di Bacon a rinnovare un connubio antico, nato agli inizi degli anni Sessanta grazie a un’amica in comune, la pittrice Isabel Rawsthorne. A distanza di quasi mezzo secolo da quell’incontro tra i due, avvenuto alla Tate Gallery di Londra, dove Giacometti stava allestendo una sua personale, quel vivace scambio di idee iniziato nel 1965 trova compimento oggi alla Fondazione Beyeler.

Uniti dalla fede incrollabile nell’importanza della figura umana - della quale portarono all’estremo l’astrazione, ciascuno a suo modo - fedeli al ruolo della tradizione, attenti studiosi dei maestri antichi, che copiarono e parafrasarono, Bacon e Giacometti affrontarono la sfida posta della rappresentazione bi- e tridimensionale dello spazio, introducendo nei loro lavori strutture simili a gabbie al fine di isolare le figure nel loro ambiente.

Nelle nove sale allestite in occasione della mostra che procede per sezioni tematiche, i lavori dei due artisti si presentano accostati, a rivelare le differenze ma anche le similitudini. I colori, talvolta brillanti, del pittore irlandese incontrano la scala dei grigi del collega svizzero, attento più alla tridimensionalità delle sculture che alla bidimensionalità dei dipinti.
A far sbocciare il percorso, la “musa” Isabel Rawsthorne, intima amica dei due e, per un certo periodo, amante di Giacometti. Entrambi i colleghi raffigurarono la pittrice esagerandone le caratteristiche in maniera singolare, osservandola da diverse distanze e mettendola in scena - come nel caso di Bacon - come una «femme fatale» dai tratti di furia.

La sala successiva è dedicata all’ampia produzione artistica dei due maestri, dalle intelaiature di Giacometti - tra le quali spicca La Cage (1950) visibile sia nella versione in gesso che nella fusione in bronzo - alla leggendaria Boule suspendue (1930) - una delle più famose sculture surrealiste dell’artista svizzero, carica di suggestioni erotiche - fino al gesso originale di Le Nez (1947-49), una testa appesa in una struttura di filo metallico, irrigidita in un grido e dal naso lunghissimo, a ricordare il burattino Pinocchio.

Dall’altra parte c’è Bacon, con le sue figure in apparenza imprigionate a simboleggiare la reclusione dell’uomo nella costrizione e nella repressione. Nella sala a lui dedicata il visitatore si imbatte in Figure in Movement (1972), capolavoro raramente esposto, proveniente da una collezione privata, che incornicia una creatura antropomorfa indefinibile che, seppur rinchiusa in una “gabbia” sembra sprigionare una plasticità fortemente dinamica.
E ancora lo sguardo ritorna a Giacometti, a una selezione di ritratti dipinti o modellati più tardi, caratterizzati da una riservatezza ipnotica, distante dell’espressività compulsiva dei lavori di Bacon.

Il dialogo tra i due protagonisti all’interno della prestigiosa Fondazione di Riehen prosegue con un confronto tra i 23 gessi rari dell’autore delle figure immobili rigidamente frontali - come quello di Grande tête mince (1954) - e i ritratti di piccolo formato eseguiti da Bacon, come il Self-Portrait del 1987, raramente esposto e dall’espressione assente.
Scivolando dal gruppo di figure femminili stanti di Giacometti, in maggioranza appartenenti alle Femmes de Venise - create dall’artista nel 1956 per la Biennale di Venezia, strette nella loro quieta dinamicità - lo sguardo incontra la versione in gesso dell’iconico Homme qui marche II del 1960 - in mostra, per la prima volta dopo decenni, assieme alla sua traduzione nel bronzo di proprietà della Collezione Beyeler - per soffermarsi poi sui notevoli trittici di Francis Bacon, accostati ad alcune composizioni singole di grande formato.
Accanto a In Memory of George Dyer (1971), appartenente alla Collezione Beyeler, sono in mostra anche Triptych Inspired by The Oresteia of Aeschylus (1981), che documenta il confrontarsi di Bacon con la mitologia greca, e ancora il Triptych (1967), proveniente dal Hirshhorn Museum di Washington, e Three Studies of Figures on Bed (1972), trittico raramente esposto appartenente alla collezione della famiglia Esther Grether.

L’intensità e la passione dell’opera di entrambi gli artisti esplodono nella penultima sala. Qui si fa guardare Buste d’Annette IV (1962) mai mostrata al pubblico a causa della sua fragilità.

La mostra, in corso a Basilea fino al prossimo 2 settembre - oltre a contare prestiti illustri - dall’Art Institute di Chicago al Museum of Modern Art di New York, dal Centre Pompidou di Parigi alla Fondation Giacometti di Parigi - accende anche i riflettori sul rapporto di amicizia che univa i due maestri a Ernst Beyeler. Il raffinato collezionista, infatti, li incontrò spesso e amava ricordarne i modi gentili e piacevoli. Inoltre, partecipando in modo decisivo alla nascita della Fondazione Alberto Giacometti di Zurigo e ospitando nella sua galleria due mostre dell’artista svizzero e due esposizioni a Bacon, Beyeler non solo contribuì a un’ampia e diffusa conoscenza dell’opera dei due, ma dedicò un ruolo di primo piano ai loro capolavori all’interno della sua collezione.

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