Nelle sale il 16-17-18 ottobre

Loving Vincent, la nostra recensione

Loving Vincent, il Dottor Gachet (Jerome Flynn). Courtesy of Nexo Digital
 

Samantha De Martin

10/10/2017

Roma - Quando la sala si riaccende e i colori magici, i personaggi fluttuanti delle tele di Vincent, l'Autoritratto lasciano il posto sullo schermo ad originali titoli di coda, sul volto di una bambina seduta in quarta fila sembra prendere luce e forma quella stessa tenerezza alla quale l’artista alludeva in una delle tante lettere al fratello Theo. «Voglio che la gente dica delle mie opere: sente profondamente e sente con tenerezza» sognava il pittore.
E se alla fine del lungometraggio, il primo interamente dipinto su tela, una bambina bionda dagli occhioni blu, in un cinema del centro continua a fissare lo schermo - inondato per 95 minuti da tempere a forma di stelle, corvi, cipressi e capanne dai tetti in paglia immerse nella campagna di Auvers-sur-Oise, che fanno da sfondo alla vita di un uomo solo, deriso, dallo sguardo triste - significa che i disegni di questo “burbero”, “solitario”, “schizofrenico” “martire dell’arte” sono davvero arrivati, a distanza di oltre cento anni, dritti al cuore della gente, come lo stesso artista di Zundert auspicava all’inizio della sua breve ma intensissima carriera.

Loving Vincent è un film speciale, inaspettato. Non è facile descriverlo, e forse è meglio così, perché vale la pena lasciare a chi varca le sale il 16, 17 e 18 ottobre, l’effetto sorpresa.
Questo caleidoscopico carillon di tempere travolge il pubblico con la sua poetica giostra di colori sulla quale personaggi, case, alberi, uccelli, fluttuano, si muovono fino a prendere voce e vita come attivati dalle rapide pennellate magistralmente dirette da Dorota Kobiela e Hugh Welchman.
In Loving Vincent gli attori hanno i volti e le movenze dei personaggi ritratti da van Gogh, parlano, si raccontano e rispondono alle domande di Armand Roulin, il figlio di Joseph, postino dell’artista, che ha una missione: recapitare a Theo, fratello di Vincent, una lettera scritta dal pittore prima di morire, a soli 37 anni, ucciso da un colpo di rivoltella.

Sin dall’inizio, con la pagina di cronaca nera che riporta il suicidio (o l’omicidio) di Vincent, lo spettatore penetra in una sorta di inchiesta nella quale l’iracondo Armand, come uno scrupoloso cronista, cerca, intervista, confuta e accoglie tesi scandagliando la vita dell’artista, frugando nel suo animo, tra le sue opere, tra quei contatti che - da Joseph Roulin al commerciante di colori Père Tanguy, da Louise Chevalier ad Adeline Ravoux, dal dottor Gachet a sua figlia Marguerite - ripercorrono la sua storia, le sue complesse vicende biografiche e le contrastanti teorie sulla morte.

Frutto della elaborazione di 94 quadri dipinti del pittore, di migliaia di immagini create nello stile di van Gogh e realizzate da un team di 125 artisti - che per una anno hanno lavorato alla ricerca di un risultato originale e di impatto - il lungometraggio, vincitore del Premio del Pubblico all'ultimo Festival d'Annecy, consegna allo spettatore la travagliata esistenza di un artista che in vita non conobbe fortuna. In otto anni di carriera Vincent riuscì, infatti, a vendere un solo quadro tra i quasi 800 realizzati per poi essere assunto, col tempo, nell’olimpo dell’arte e guadagnarsi un posto d’onore nei più prestigiosi musei del mondo, da Amsterdam a New York, da Londra a Mosca, da Parigi a Dallas.

Come un protagonista del quadro, lo spettatore si ritrova dentro il Caffé di notte, nell’estate del 1891, a un anno dalla morte del pittore, piacevolmente frastornato da quel vortice di colori che lascia il posto al bianco e nero quando la figura di Vincent appare, si racconta, tragica e malinconica, profondamente innamorata di quella vita che distende sulle sue tele con innata tenerezza. Simile all’albatro di Boudelaire, così deriso e schernito con le sue ali di gigante, Vincent “il cattivo”, l’odiato, conquista lo spettatore con quella sensibilità e la bontà del genio incompreso.

Visitando il tranquillo villaggio di Auvers-sur-Oise, Armand ripercorre i luoghi del maestro olandese, muovendosi tra un Campo di grano con volo di corvi e una Notte stellata, parla con il Barcaiolo, conosciuto dal pittore nel corso della sua travagliata esistenza - e che sbuca fuori da La riva dell’Oise ad Auvers - apprende un segreto dal dottor Gachet, il medico che assistette l’artista nelle sue ultime settimane di vita e che “emerge” dal suo ritratto per raccontare gli ultimi istanti di vita del pittore.
Armand porta il pubblico nella locanda dei Ravoux, nel letto in cui Vincent morì il 29 luglio del 1890, con un proiettile conficcato nell’addome, lui che negli ultimi giorni sembrava felice e che aveva chiesto alcuni canovacci sui quali dipingere, considerato l’elevato costo delle tele che il fratello Theo gli procurava.

Non possiamo che parlare con i nostri dipinti appuntava van Gogh in uno dei suoi ultimi scritti. Ed è per questo che Loving Vincent può forse essere considerato l’omaggio più illustre e prezioso dell’arte al suo immenso protagonista. Un omaggio racchiuso nelle parole di Armand, «Voglio fare qualcosa per Vincent van Gogh», per quel pittore straniero dalla barba rossa, amico del padre, che si era tagliato il lobo dell’orecchio sinistro per poi consegnarlo a una prostituta, e che era stato internato in un manicomio locale.

Dietro i protagonisti nel lungometraggio si celano volti noti del mondo del cinema, abbinati ai dipinti che essi stessi rappresentano. Ci sono Douglas Booth, nei panni di Armand Roulin, e Jerome Flynn in quelli del Dottor Gachet. C'è Aidan Turner, il Barcaiolo, e c'è infine il protagonista, van Gogh, interpretato dall’attore di teatro Robert Gulaczyk.

Distribuito da Nexo Digital in collaborazione con Adler, con i media partner Radio DEEJAY, Sky Arte HD e Mymovies.it, Loving Vincent segna una nuova frontiera per la Grande Arte al Cinema. Con estrema lungimiranza e originalità accosta, infatti, la tecnologia avanzata a un genere letterario antichissimo come le epistole, una documentazine fondamentale per ricostruire la personalità del pittore, ma anche le sue concezioni artistiche. Perché tra il mondo pittorico e quello letterario di van Gogh corre un filo sottile. In ragione della celebre formula oraziana ut pictura poesis, che accostava la pittura alla poesia, il pittore nelle proprie missive commentava nel dettaglio i propri capolavori, offrendo personali riflessioni in merito al soggetto, all'apparato cromatico, alle circostanze che lo indussero alla creazione.
Il suo è un mondo affascinante e travolgente, un universo che vale la pena di scrutare. Ed è anche per questo che Loving Vincent colpisce nel segno. Quando la luce ritorna in sala Vincent rimane addosso, con la sua vita, il suo incedere, la sua solitudine. E come una beffa riecheggiano le sue parole: «Cosa sono io agli occhi della gran parte della gente? Una nullità, un uomo eccentrico o sgradevole, qualcuno che non ha una posizione sociale né potrà mai averne una, in breve, l'ultimo fra gli ultimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei un giorno che le mie opere mostrassero cosa c'è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno». Caro Vincent, missione compiuta.

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