Al cinema dal 4 marzo

Kusama Infinity - La nostra recensione

Yayoi Kusama nel suo studio. Image © Yayoi Kusama. Courtesy of David Zwirner, New York; Ota Fine Arts, Tokyo_Singapore_Shanghai; Victoria Miro, London
 

Samantha De Martin

28/02/2019

“Voglio vivere per sempre. Ora che la mia vita è giunta all’ultima fase dirigo tutta l’energia nell’arte”.
Durante tutta la sua esistenza, Yayoi Kusama ha attribuito alle sue opere fatte di reti e di pois, specchi e zucche colorate, una funzione quasi maieutica, cercando di affidare alle sue abbaglianti creazioni, la nevrosi, l’ossessione per l’accumulo, i traumi, le solitudini, le allucinazioni di un’esistenza alla costante ricerca di un riconoscimento in un panorama troppo acerbo per il suo spirito rivoluzionario, nel tentativo di convertire l’energia della vita negli infiniti pois dell’universo.
In quella rapidità di esecuzione che la porta tuttora a realizzare un’opera in tre giorni si nasconde forse un trauma infantile legato alla madre, la stessa che costringeva Yayoi bambina a seguire il marito durante le continue scappatelle.

Eccola Kusama, con la sua inconfondibile parrucca rossa a tracciare linee con il pennello nello studio a due isolati dall’ospedale psichiatrico Seiwa, in Giappone, dove ha scelto di vivere dalla fine degli anni Settanta.
Mentre in tutto il mondo le sue Infinity Room, i fiori barocchi, le installazioni stranianti, le poltrone dalle protuberanze falliche mettono in fila migliaia di visitatori, alla ricerca del selfie perfetto, Yayoi trascorre le giornate nel suo studio, per tornare, a sera nell’unico universo che ha saputo accoglierla, comunicandole un senso di sicurezza.

Quello che maggiormente emoziona di Kusama Infinity - il documentario di Heather Lenz distribuito da Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema che ripercorre la carriera artistica e la vita privata dell’artista donna più venduta al mondo, nelle sale dal 4 marzo - è probabilmente l’incredibile solitudine di Yayoi. Anche quando i suoi lavori, da 75 dollari, arriveranno a costarne 75 milioni. Ma colpisce anche la straordinaria caparbietà nel riconoscere il sessismo che caratterizzava il mondo dell’arte a cavallo degli anni Sessanta e superarlo per assecondare le proprie ambizioni creative in una New York ancora troppo diffidente verso un’artista giapponese, per giunta donna, disposta a tutto pur di assicurarsi un mecenate.

Rinunciando alla scuola di etichetta della conservatrice Matsumoto, dove sua madre avrebbe voluto mandarla prima di avviarla al mestiere di casalinga, Kusama arriva nella grande mela, dove risiede dal 1958. E la si immagina - grazie alle testimonianze offerte da critici e curatori, direttori dei musei, collezionisti e persino del suo migliore amico - portare personalmente, sebbene senza invito, i suoi lavori nelle gallerie, pur senza riuscire a varcarne effettivamente la soglia.
Come accadde alla Biennale di Venezia del 1966, quando si presentò senza invito, fuori dai padiglioni, con 1500 sfere di specchi, e quando le chiesero di andarsene rispose: “Perché non posso vendere la mia arte come si fa con un gelato o un hot dog?”. Una frase che apre una riflessione sul significato e sul destino dell’arte.

Intanto quelle visioni dell’Oceano che ammirava dal finestrino dell’aereo iniziavano a diventare le reti in espansione che sarebbero diventate il simbolo della sua arte. Tra le interviste il documentario inserisce molte immagini d’epoca. E il pubblico rivive l’anticonformismo di Kusama nelle proteste pacifiste organizzate dall’artista in strada a New York, completamente nuda, mentre dipinge i corpi di uomini e donne, divenuti nel frattempo tele sulle quali dar sfogo al suo libero estro. O mentre organizza un matrimonio gay per consentire ai protagonisti di mostrarsi senza vergogna.

C’è forse un episodio dietro questa ossessione, che ha definito la trama e i motivi della sua pittura. E il film più volte la affronta svelando particolari intimi, poco conosciuti.
Il documentario ha il grande merito di trasportare il pubblico nell’atto creativo dell’artista, trasformandolo in una sorta di assistente e catapultandolo in un caleidoscopio di immagini, notizie, sensazioni, decisamente avvincente.
C’è la protesta di Yayoi di fronte al sistema museale di quel tempo. “Mentre i morti espongono, gli artisti viventi muoiono” diceva. E c’è la missione, assegnata all’arte, di condannare la guerra.

Relegata agli angoli della scena artistica, incompresa dal Giappone che la considerava “vergognosa”, dimenticata da New York, Kusama, tra gli anni Settanta e Ottanta fu cancellata dalla storia. Tutto il resto, come il suo colorato e fantasioso universo abbia saputo rialzarsi nonostante le drammatiche vicende, è il film a raccontarlo.

Perché quello che più rimane impresso di Kusama Infinity non è il noto - il suo universo fatto di reti e di pois - ma il lato oscuro della vicenda personale di una pioniera, nel cui sguardo, apparentemente impassibile, il pubblico ha il privilegio di intravedere la straordinaria folgorazione per l’arte.

Forse è vero che “Dal punto di vista di chi crea, tutto è una scommessa, un salto nel vuoto”. E Kusama il salto lo ha compiuto, è stato difficile, ma adesso l’artista donna più popolare al mondo è riuscita finalmente, dopo anni di mancati riconoscimenti, “a riportare a casa la corona”.

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