Sette mostre al MAC - Museo d'arte contemporanea di Lissone

Sette mostre al MAC - Museo d'arte contemporanea di Lissone

 

Dal 15 Dicembre 2013 al 26 Gennaio 2014

Lissone | Milano

Luogo: MAC - Museo d'arte contemporanea di Lissone

Indirizzo: viale Padania 6

Orari: martedì, mercoledì e venerdì 15-19; giovedì 15-23; sabato e festivi 10-12/ 15-19

Costo del biglietto: ingresso gratuito

Telefono per informazioni: +39 039 2145174

E-Mail info: museo@comune.lissone.mb.it

Sito ufficiale: http://www.comune.lissone.mb.it


Alchimia. Oggetti della nuova sensibilità
14 dicembre - 19 gennaio 2014 

Per festeggiare i settant'anni di Alessandro Guerriero, il MAC di Lissone ospita una mostra dello storico Studio Alchimia il cui allestimento rievoca il famoso Mobile infinito del 1981. Seguendo uno sviluppo in profondità, le opere creano una sorta di prospettiva-orizzonte che non attiene a criteri cronologici ma privilegia lo spirito di "confusione" che aveva caratterizzato il gruppo. 
Sviluppatosi in seno alla crisi di valori dell'epoca postmoderna, lo Studio Alchimia ha segnato l'evoluzione del design italiano grazie alla sua vocazione poetica, autoriflessiva, introversa, eclettica, che si prefiggeva l'obiettivo di mettere in crisi l'ordine precostituito e il concetto di normalità, trovando la sua raison d'être al di fuori degli schemi. Il gruppo si opponeva infatti alla specializzazione in favore di un approccio interdisciplinare che favoriva la commistione dei generi (pittura, scultura, architettura, teatro, arti applicate), così come degli stili e delle tecniche (dall'artigianato all'industria, fino all'informatica). Oltre a sperimentare inedite metodologie, l'atteggiamento anticonvenzionale di Alchimia era indirizzato all'elogio del banale e dell'imprevisto, dell'ornamento e della decorazione, di ciò che è ludico e curioso. La grande importanza assegnata al disegno - prima ancora che al design - si è incentrata sul pensiero visivo, sul suo aspetto immaginifico, dando origine a un "progetto dolce", innamorato non solo degli oggetti ma della vita in generale. Nel Manifesto di Alchimia , scritto da Alessandro Mendini nel 1985, si legge: «Per Alchimia il suo compito di gruppo che disegna è quello di consegnare agli altri una testimonianza del "pensiero sentimentale". La motivazione del lavoro non sta nella sua efficienza pratica, la "bellezza" dell'oggetto consiste nell'amore e nella magia con cui esso viene proposto, nell'anima che esso contiene. [...] Alchimia lavora sui valori considerati negativi, della debolezza, del vuoto, dell'assenza e del profondo, oggi intesi come cose laterali rispetto a ciò che è esteriore, pieno e violento, come cose da rimuovere. [...] Per Alchimia le discipline non interessano quando sono considerate all'interno delle loro regole. [...] Per Alchimia gli oggetti devono essere assieme "normali" e "anormali". La loro componente di qualunquismo li fa confluire nel quotidiano, nel reale e nel bisogno di appiattimento, la loro componente di eccezione li toglie dalla consuetudine e li collega al bisogno dell'imprevisto, dell'incidente, della differenza, della trasgressione». 
Fondato a Milano nel 1976, lo Studio Alchimia è il primo esempio di progettisti produttori che lavorano e sperimentano in molti settori diversi. Altrettanto numerosi sono gli autori coinvolti: Alessandro e Adriana Guerriero, Alessandro Mendini, Ettore Sottsass jr, Bruno e Giorgio Gregori, Michele De Lucchi, Andrea Branzi, Paola Navone, Daniela Puppa, Franco Raggi, Cinzia Ruggeri, Paolo Portoghesi, Riccardo Dalisi, Magazzini Criminali, Metamorphosi, UFO, la Transavanguardia e molti altri. La cultura dello studio Alchimia, derivata da quella del contro-design italiano, modifica alla base tutte le precedenti teorie del design, provocando un cambiamento radicale e profondo della mentalità degli architetti. "Alfabeti Visivi", "Redesign", "Design Banale", "Cosmesi", "Robot Sentimentale" sono alcuni degli slogan che sottendono alla esuberante e vastissima produzione di oggetti artigianali, kitsch, di recupero, di massa, improbabili e provocatori ma tutti molto carichi di teoria. Le attività emozionali, psichiche e antropologiche si espandono poi ai libri, alla didattica, ai video e ai suoni. L'esperienza del gruppo si conclude nel 1992 ma rivive ancora oggi in mostre e nelle tante, eterogenee opere dell'epoca. 

Ugo La Pietra. Occultamento
14 dicembre - 19 gennaio 2014 

In occasione della XVI Settimana Lissonese tenutasi nel 1973, gli architetti Alberto Salvati e Alberto Tresoldi allestirono la mostra Proposte critiche per 6 alloggi IACP presso il Centro del Mobile di Lissone. Promuovendo le ricerche per "la casa degli anni '70", l'esposizione si incentrava/interrogava sugli spazi abitativi dell'edilizia pubblica. Tra gli arredamenti progettati appositamente per la mostra, destò molta attenzione la proposta che Ugo La Pietra fece per le case Gescal. Tenendo fede al Sistema disequilibrante teorizzato in quegli anni, l' OCCULTAMENTO di La Pietra metteva in crisi gli spazi codificati e ne svelava usi percettivi e funzionali. Al progetto venne riconosciuto un premio da parte della città di Lissone, e sei anni più tardi valse all'autore il conferimento del Compasso d'Oro. 
Sono trascorsi quarant'anni da allora, e per ricordare la singolare collaborazione tra Ugo La Pietra e i mobilieri lissonesi (esecutori del progetto furono due ditte artigiane: Arosio Giacobbe & figli e F.lli Viscardi) vengono riproposte tavole e fotografie dell'epoca, corredate da materiali d'archivio che raccontano un importante capitolo nella storia del design moderno. 
Agli inizi degli anni Sessanta in Italia nascevano i primi programmi di sperimentazione nei settori dell'edilizia residenziale. Vennero infatti varate le norme Gescal (Gestione Case dei Lavoratori) che richiedevano una progettazione più consapevole per quanto riguardava gli interventi nelle case popolari; la richiesta della "progettazione integrale" e della "progettazione coordinata" costituiva un primo, significativo tentativo di innovazione procedurale. È in questo contesto ideologico che si inserisce l 'Occultamento di La Pietra, che l'autore aveva così raccontato sulle pagine del Numero unico pubblicato dall'Ente comunale del mobile di Lissone: «Data la mancanza di una effettiva possibilità di approfondire il tema sul piano economico, produttivo, sociale ed anche formale, cerco con questa proposta di porre in luce le contraddizioni più grossolane riscontrabili all'interno dello spazio abitativo proposto (mancanza di uno spazio vitale una volta inserite le strutture atte a risolvere la funzione "dormire" che appare la "dominante" e che invece, attraverso l'operazione proposta di occultamento , viene ridotta praticamente a zero) e la non volontà di "calare dall'alto" modelli di arredo (precostituiti) o strutture "disponibili alla manipolazione" che mistificano il problema lasciandolo praticamente inalterato (problema del ruolo e del rapporto che esiste tra progettazione e fruizione). Nella mia proposta appare chiaro da una parte il tentativo di esprimere una presa di posizione critica nei confronti dello spazio, così come ci viene fornito dalle norme GESCAL, dall'altra la volontà di proporre non tanto soluzioni precostituite imposte dall'alto, quanto ritrovare nella progettazione di spazi interni abitativi, un ruolo da parte del formalizzatore che non copra tutti i possibili GRADI DI LIBERTÀ che lo spazio potrebbe consentire, realizzando cioè delle "strutture di base" che siano in grado di risolvere i problemi più grossolani dell'attrezzatura di uno spazio abitabile, lasciando poi però alla possibilità di intervento dell'individuo la libertà di agire autonomamente, minimamente condizionato alla creazione di uno spazio congeniale alle sue effettive esigenze. Il progetto non vuole essere quindi una reale soluzione al tema proposto, ma un approccio al problema, esprimendo attraverso l'operazione di occultamento alcune scelte all'interno della sua effettiva soluzione». 
Tra il 1966 e il 1972 Ugo La Pietra teorizza il Sistema disequilibrante che si colloca in una dimensione storica sufficientemente comprensibile: il rifiuto di operare nella logica del sistema per riuscire a individuare operazioni estetiche capaci di decodificare, provocare e dare la possibilità di rompere gli schemi precostituiti. Così scriveva l'autore nel 1966: «L'ipotesi fondamentale su cui si basa la mia ricerca si esprime attraverso lo studio e la definizione dei gradi di libertà che sono reperibili all'interno delle "strutture organizzate". Individuati questi, le soluzioni progettuali si manifestano attraverso precipitazioni (a qualsiasi scala di intervento) in grado di costituire momenti di rottura all'interno della base programmata. La sommatoria di questi momenti dovrebbe portare alla costituzione di un Sistema disequilibrante in grado di coinvolgere qualsiasi processo di formalizzazione. L'indagine all'interno dei vari campi disciplinari (sulla ipotesi formulata) mi ha portato al chiarimento e al superamento (nell'ambito della ricerca bidimensionale e oggettuale) della problematica relativa all'arte programmata, inserendo quegli elementi di rottura che sono facilmente identificabili con il concetto del Sistema disequilibrante sopra espresso. Nelle più recenti realizzazioni a livello ambientale, con la possibilità di manipolare elementi più complessi (vale a dire le componenti fondamentali dello spazio: il suono, la luce, il colore, il tempo, ecc.), ho potuto trasferirele esperienze espresse precedentemente in maniera ancora allusiva (coinvolgendo direttamente il comportamento dell' individuo) in questa nuova scala di intervento, potendo così segnalare meglio alcuni concetti spaziali informatori». 

Una prospettiva radiante. Dall'aniconico all'analitico, e oltre 
14 dicembre - 19 gennaio 2014 

Dopo il prologo delle Cronache del dopo-bomba, che indagava le esperienze informali a livello internazionale, e l'interludio de La Milizia Realista, incentrata sull'evoluzione del Realismo in Italia, Una prospettiva radiante è il logico compimento di una trilogia espositiva ispirata alle collezioni del MAC che si arricchiscono di tre nuove opere. In occasione di questa mostra vengono infatti presentate un'inedita Psicoplastica (1972) di Franco Grignani, importante esponente della Op Art, un Tre tempi matematici (1981-1999) di Lorenzo Piemonti, epigono dell'Arte concreta di matrice elvetica, e K516 (1998) di Michael Rögler, il cui rarefatto processo cromatico appartiene all'ambito della monochrome malerei 
Giorgio Manganelli aveva scritto che «ogni triangolo vorrebbe essere scambiato per Dio». Dagli imeni triangolari del secolo scorso hanno origine le geometrie che invadono il piano interrato del museo: forme e formalismi pittorici che rispecchiano una necessità di rigore e di assoluto, aspirazione sovente associata a un certo misticismo (la parola "monaco" deriva da monos, cioè "solo", vocazione che gli artisti tendono a condivi-dere con il colore puro). 
L'area di ricerca astratto-geometrica, che nel Novecento aveva sancito l'inevitabile rottura con la tradizione figurativa, si cristallizza in strutture primarie che vengono asservite al mondo del numero e della regola, come nel caso di Piero Dorazio e di Mauro Reggiani, che negli anni Trenta sono stati tra gli alfieri dell'astrazione geometrica. Intransigenti nei confronti dell'arte iconica, le composizioni dei due artisti aprono la strada a reticoli e forme "plastico-concrete" contraddistinte da una accurata progettualità. 
L'esposizione prosegue poi con le diafane estroflessioni di Agostino Bonalumi e Turi Simeti che forzano il riduzionismo fino alla tabula rasa. Nelle loro opere si accentua l'atteggiamento autoriflessivo nella pratica del fare arte, tesa a indagare la thingness e la flatness della superficie pittorica. Dal purismo delle superfici monocrome si passa quindi al lirismo policromo di Bressan, Guarnieri, Olivieri, Raciti, Sermidi, Vago, Verna, Vicentini, esponenti di una pittura tonale che si produce in un'emissione/impressione di luminosità. Tra nitori e trasparenze, in questi dipinti si sprigiona un'energia corpuscolare che si dà come organismo in dissoluzione. La generazione è quella della cosiddetta pittura analitico-riduttiva, la quale spazia dai crismi della geometria - infinitamente reiterabile - a corpi eteri, impalpabili, che rinunciano ad arroccarsi dietro generiche definizioni di "Senza titolo" o di "Composizioni", cedendo viceversa il passo a suggestioni che evidenziano un amore più morbido e intimo per l'ab-stracto. 
A dispetto della ferrea partitura di Dorazio, le linee si dissolvono qui in un ritmo (anziché in uno spettro) cromatico; l'astrazione si fa vibrante, caratterizzata da pennellate delicate, più sensuali che razionali, come testi-moniano anche le declinazioni in ambito internazionale di Edo Murti? e Agustín Espa-ñol Viñas. 

Il manico della scure è fatto con lo stesso legno che la scure abbatte...
14 dicembre - 19 gennaio 2014 

Volge al termine la micro-rassegna READESIGN, che durante l'anno aveva associato una sedia a una macchina da scrivere, con l'obiettivo di leggere il disegno e di raccontare il design. 
In concomitanza con il Premio Lissone Design 2013, il progetto assume una nuova connotazione nell'intento di giocare a più livelli sulla storia del museo e del territorio in cui opera. Con il pleonastico titolo Il manico della scure è fatto con lo stesso legno che la scure abbatte, la mini-esposizione intende ricollegarsi alla lavorazione del legno, la cui ricerca e creatività appartiene alla tradizione lissonese; prendendo spunto da questo "at-taccamento" alle cose e al passato, si è volu-to innescare un rapporto dialettico tra tre oggetti in legno che (idealmente) omaggiano la tradizione delle piccole e medie imprese di Lissone, i cui articoli per l'arredo avevano fatto della cittadina brianzola una rinomata Capitale del Mobile. 
Volendo mantenere una continuità con i precedenti appuntamenti di READESIGN, anche in questa occasione l'allestimento sarà incentrato su una storica seduta, la Zig Zag di Gerrit Thomas Rietveld, fulgido esempio dei precetti teorizzati da Piet Mondrian. Ancor prima che architetto, Rietveld è stato un abile artigiano, esperienza che gli ha permesso di lavorare in prima persona agli arredi e ai mobili delle sue abitazioni. La seduta in legno rispecchia un funzionalismo essenziale, in cui le linee orizzontali e verticali sono desunte direttamente dall'architettura Neoplastica. 
Prodotta ancora oggi da Cassina, la Zig Zag è stata progettata nel 1932-33, ed è com-posta da quattro piani separati, di formato rettangolare, assemblati mediante una giun-tura a coda di rondine tra il sedile e lo schienale, unitamente ad alcuni cunei triangolari che rinforzano gli angoli acuti della base. Vista di profilo, la sedia forma una linea unica, "zigzagante", che valorizza le venature del legno. 
Se la sedia [e]semplifica il concetto di astrattismo, ricollegandosi all'interrato dell' edificio dove sono state allestite le collezioni aniconiche del MAC, il secondo oggetto qui esposto rimanda invece alla sezione dedicata ai taglieri di Ico Parisi, visibili al primo piano del museo. Si tratta infatti di un analogo tagliere, la cui forma corrisponde alla prove-nienza geografica del legno utilizzato per realizzare l'utensile da cucina. Il terzo oggetto, invece, è in relazione con il Premio - Design for Food/Design to Feed - che quest'anno affronta le tematiche dell'Expo 2015. Appartenente alla casistica del design anonimo, l'oggetto in questione esautora il concetto per cui "la forma segue la funzione"; l'aspetto è quello di un piccolo razzo, sulla falsariga della primissima estetica Sci-fi, ma in realtà non è altro che un macinapepe del secolo scorso. 
L'affascinante commistione tra questi utensili e complementi d'arredo innesca uno strano, e talvolta ironico, milieu culturale. Più che una affinità elettiva (definizione rimasta nel-l'immaginario e nei cuori dei lissonesi in virtù di un'omonima mostra del 1985) siamo di fronte a un'affinità Selettiva, in quanto i tre oggetti instaurano tra loro un rapporto di vaga parentela, un "legame naturale" associato al materiale ligneo, riassumendo tout court la programmazione invernale del museo. 

De gustibus non est disputandum?
14 dicembre 2013 - 26 gennaio 2014 

A latere del Premio Lissone Design, incentrato sulle tematiche connesse al Food design, viene riproposta una selezione di taglieri d'artista che gli eredi di Ico Parisi hanno donato alla città di Lissone nel 2009. L'importante e amena collezione è stata raccolta da Parisi tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del secolo scorso. Si tratta di oltre 80 opere realizzate su tradizionali taglieri da cucina, singolari non soltanto per il supporto su cui sono realizzate ma perché costituiscono un significativo documento storico. 
I taglieri d'artista che Parisi ha collezionato durante la sua vita erano stati commissionati agli amici che gli facevano visita nella casa di Spurano di Ossuccio, sulle sponde del lago di Como, abitazione da lui definita "il pollaio" essendo stata ricavata dalla ristrutturazione di una rimessa di barche a cui era annesso un vecchio pollaio. La serie dei taglieri ha occupato la scala e l'ingresso di questo edificio, che aveva richiamato l'attenzione delle riviste d'architettura e di design, fino a quando la sorella di Parisi ha deciso di destinare la collezione al Museo d'Arte Contemporanea di Lissone. Dalla casa di Spurano sono passati artisti, architetti, designer, poetici e critici, ma anche giovani creativi che erano accolti con piacere e che se ne andavano con un tagliere in mano, sollecitati dal padrone di casa a trasformalo in un'opera d'arte. Ne è nata una collezione sui generis - ma forse bisognerebbe dire "de gustibus" - che annovera interventi di Enrico Baj, Luciano Baldessari, Dadamaino, Sergio Dangelo, Gabriele De Vecchi, Lucio Del Pezzo, Bruno Di Bello, Lucio Fontana, Nato Frascà, Aldo Galli, Omar Galliani, Anaid Manoukian, Fausto Melotti, Bruno Munari, Gianfranco Pardi, Giò Ponti, Mario Radice, Mauro Reggiani, Pierre Restany, Francesco Somaini, Mauro Staccioli, Emilio Tadini, Nanda Vigo e altri ancora. 
Ico Parisi (nome di battesimo Domenico Parisi), 

Cosa guardo quando osservo
14 dicembre - 19 gennaio 2014 

L'occhio è il nostro principale organo di senso, il quale veicola la forma - ma anche il significato - delle cose che ci circondano. Dedicare attenzione a un'opera d'arte implica una particolare concentrazione (visiva) da parte del percipiente. Ebbene: cosa stiamo guardando quando ci troviamo di fronte alle opere di questi giovani artisti? 
Nel ciclo fotografico Ossimoro, Elena Marzocchi compie un'immedesimazione in situazioni e costumi che si contrappongono agli oggetti presenti nell'immagine. Suscitando una sensazione di disturbo nello spettatore, Marzocchi intende scardinare alcuni tra i più comuni stereotipi. 
La scultura-ziggurat di Anna Negretti è il conseguimento di una radicale sublimazione: dall'oggetto al sapone. 
Attraverso piccole modifiche, realizzate direttamente sulla scansione di un francobollo, Nicolò Maggioni cerca di imprimere una traccia del proprio passaggio. Un segno non invasivo che riesca ad amalgamarsi con la natura stessa dell'oggetto filatelico. 
Nel video Magna carta Martina Brugnara strappa e mastica un libro di storia dell'arte, atto che rimanda alla "negazione" intesa non solo come gesto del ricusare ma anche come contenuto del rimosso. La volontà di negare la storia dell'arte non sottintende un valore negativo, è anzi necessaria per superare quelli che sono i limiti nati dalla stratificazione/ saturazione delle ricerche artistiche. Mediante un gesto forte e intuitivo, il video racconta l'annullamento (a volte doloroso) delle parole e delle immagini. 
Nei suoi dipinti, denominati Parvenze, Elisa Rossetti attua una stratificazione del colore che nasconde l'immagine (spezzettata) posta sulla cartavetro. L'intento è quello di rappresentare la società odierna, quella che dà più valore alla forma esterna rispetto all'interiorità degli individui. 
I lavori su carta di Camilla Zanini sono degli "studi tra natura e forma". Il linguaggio del segno e quello delle geometrie dialogano all'interno di un'immagine formalmente incoerente, ma incline alla ricerca di un equilibrio. 

Opere scelte della Collezione permanente
Cartello n°20 Gesto e materia
Mario Schifano 
Homs, Libia 1934 Roma 1998 
Cartello n°20, 1960 
olio e carta su tela 150x130 cm 

I dipinti monocromi di Mario Schifano sono il perfetto esempio dell'avvenuto superamento delle poetiche informali. In questo dipinto giovanile l'artista stende il colore denso e vischioso su un foglio di carta intelata, privilegiando così il valore energetico del pigmento che sembra collidere con la scritta alfanumerica posta al centro del quadro (motivo ripreso dalla realtà oggettiva e fatto segno pittorico). Sono opere come questa ad aprire la via alla Pop art europea, la quale risente di una reinvenzione intellettuale e formale che culmina in una nuova e straniante versione della cultura di massa. 

Vasco Bendini 
Bologna, 1922 Vive a Parma 
Gesto e materia, 1970 
Polimaterico su tela 72x60 cm 

L'opera di Vasco Bendini, appartenente alla serie Gesto e materia, vira in una scala di non-colori, o più precisamente di colori-luce che non sono né descrittivi né evocativi. La luce attinge infatti alla forma mentis dell'arti-sta, il quale rende possibile l'affioramento della sostanza pittorica. L'immediatezza del gesto diventa effusione emotiva, coagulo non intenzionale in cui la materia e lo spazio sono considerati valori in sé. L'approccio istintiva-mente sensuale con la pasta coloristica (tesa a eccitare il processo generativo dell'imma-gine) permette a Bendini di saggiare fino in profondità la fisiologia interna dell'opera. 

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