Dentro il capolavoro di Palazzo Barberini

Caravaggio e l’enigma di Narciso

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Narciso, 1594-1596, Olio su tela, 110 x 92 cm, Roma, Palazzo Barberini | Foto: Gallerie Nazionali d'Arte Antica - Biblioteca Hertziana
 

Francesca Grego

09/04/2020

Roma - “Mentre cerca di calmare la sete, un’altra sete gli nasce: rapito bevendo dall’immagine che vede riflessa, s’innamora d’una chimera: corpo crede ciò che è solo ombra. (…) Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e oggetto amato”. Nessun artista riuscì a tradurre in pittura il mito ovidiano di Narciso come l’autore del capolavoro di Palazzo Barberini. Ma fu davvero Caravaggio a dipingerlo? Pochi quadri hanno innescato dispute così virulente, dividendo gli studiosi in opposte fazioni. A infittire il mistero, le scarse notizie disponibili sulla storia della tela.
Che sia stato o no il pennello del Merisi a dar forma al Narciso, tuttavia, sua è l’impronta all’origine dell’opera. Scopriamo perché, in un viaggio dentro uno dei dipinti più affascinanti di sempre, capace di andare al cuore del lavoro artistico e del nostro rapporto con le immagini. 



Un mito che ha stregato l’Occidente 

Al centro del dipinto c’è il mito greco di Narciso, che ha segnato la storia della cultura occidentale dall’immaginario artistico alla psicanalisi. Narciso è un giovane cacciatore, che con la sua bellezza fa strage di cuori. Ultima è la ninfa Eco, talmente addolorata dalla sua indifferenza da lasciarsi consumare finoa ridursi ad una flebile voce. Nemesi, la vendetta, decide di punire l’ingrato. Quando, nell’ombra di un fitto bosco, Narciso si china a bere su uno specchio d’acqua, si innamora del proprio riflesso credendo di aver incontrato un giovane di incredibile bellezza. Invano cercherà di toccarlo: secondo Ovidio morirà di dolore, mentre le fonti greche parlano di un annegamento nel tentativo di raggiungere l’altro. Il corpo del cacciatore sparirà, lasciando il posto al fiore che porta il suo nome.
 

L’originalità del capolavoro di Palazzo Barberini
Nei secoli schiere di artisti si sono lasciate ispirare dalla storia di Narciso. Dalle trasposizioni pittoriche alle illustrazioni cinquecentesche delle Metamorfosi di Ovidio, il mito emerge in tutti i suoi dettagli: il bosco rigoglioso, i cervi che lo abitano, il cane e l’arco del giovane cacciatore, i fiori a lui dedicati indicano il tentativo di raccontare la leggenda classica nel modo più completo possibile. 
Il capolavoro di Palazzo Barberini cancella tutto questo. Caravaggio o chi per lui concentra l’attenzione sulla scena che, per noi moderni, è l’essenza del mito: il momento in cui Narciso si china sulla fonte e tenta, rapito, di afferrare la propria immagine. Da una penombra priva di dettagli emerge solo il mezzobusto del giovane in preda all’amore verso un sé che appare altro. 
Ma c’è di più. Lo spazio del quadro è diviso verticalmente in due porzioni speculari, come in una carta da gioco: sopra il Narciso in carne e ossa, sotto il riflesso evanescente e irresistibile.



Lo specchio imperfetto e il volto di Caravaggio

Se osserviamo attentamente il quadro, noteremo che l’immagine restituita dall’acqua non è esattamente identica a quella del giovane che vi si specchia. Gli occhi semichiusi, i lineamenti vagamente deformati, l’espressione più cupa sembrano un presagio dell’infelice epilogo. Fu una scelta? Un’ipotesi suggestiva arriva dalla storica dell’arte e curatrice Rossella Vodret. Secondo Vodret, Caravaggio dipinse il Narciso prendendo se stesso come modello e aiutandosi con due specchi sapientemente posizionati. Anche la studiosa si è messa a giocare con gli specchi, ricostruendo parzialmente la genesi del dipinto. Poi ha chiesto aiuto ai Carabinieri del Nucleo di Tutela del Patrimonio: grazie ai metodi di ricostruzione del volto in uso in campo investigativo, è risalita alla metà invisibile del viso di Narciso che, confrontata con altri dipinti del Merisi, sembrerebbe restituire proprio il volto di Caravaggio. La mano del cacciatore che sfiora l’acqua corrisponderebbe quindi a quella del pittore che regge il pennello. 



Nelle nebbie del passato: una storia da ricostruire
Nel 1913 lo storico dell’arte Roberto Longhi, padre degli studi su Caravaggio, vede il Narciso a casa del collega Paolo D’Ancona, che l’ha ricevuto in eredità dallo zio Laudadio della Ripa. Longhi non ha dubbi: ha davanti un’opera giovanile del Merisi, una delle sue “più personali invenzioni”, realizzata nei primi anni di permanenza a Roma. Balza subito all’occhio dell’esperto l’influenza del naturalismo lombardo che il genio della luce mutuò da Giovanni Girolamo Savoldo e trasformò negli anni in qualcosa di suo. Messa in vendita poco dopo, la tela arriva nel 1916 alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini attraverso una donazione. Ma non reca con sé né firma né documentazione. Questo darà adito ad una querelle mai risolta sulla sua paternità. 
Il passato della tela appare avvolto dal mistero più fitto. L’unico documento che possa riguardarla - e siamo già agli anni Settanta - è una licenza d’esportazione del 1645, che autorizza il trasferimento da Roma a Savona di un Narciso del Caravaggio delle stesse dimensioni dell’opera di Palazzo Barberini. Nel corso del XX secolo le attribuzioni fioccano: Orazio Gentileschi, Bartolomeo Manfredi, Niccolò Tornioli, Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, tutti di ambito romano. Alla fine restano in due, Caravaggio e Spadarino, protagonisti di un duello pluridecennale.  



Caravaggio vs Spadarino
Argomentazioni storiche, scientifiche e stilistiche si intrecciano in un giallo appassionante, che ha intrigato i più grandi esperti di arte seicentesca e non solo. 

Dalla parte di Caravaggio
Il primo testimone da interpellare è Laudadio della Ripa, erede di una stirpe di ricchi mercanti e banchieri pesaresi, nonché primo proprietario noto del dipinto, che nel corso dell’Ottocento fu ospitato nella sua villa toscana. Lo zio di D’Ancona sembra metterci su una pista promettente: conduce nientemeno che al cardinale Francesco Maria del Monte, tra i primi e più potenti committenti di Caravaggio. Pare che nella prima metà del XIX secolo il banchiere avesse acquistato una collezione di dipinti dalla nobile famiglia dei Giordani di Pesaro, nel Seicento legata al cardinal Del Monte da solidi rapporti di amicizia. Mancano tuttavia dei documenti riferiti direttamente alla tela del Narciso
Un restauro condotto nel 1995 sembra fornire indizi più concreti a sostegno dell’ipotesi di Longhi, condivisa  da studiosi come Vodret e Maurizio Marini. Indagini radiografiche evidenziarono allora la presenza di un’incisione tracciata con il manico del pennello o con un punteruolo sul fondo di pittura ancora fresco: un segno tipico del modus operandi di Caravaggio che, almeno nelle sue opere meno affollate, pare avesse la rara abitudine di fare a meno dei disegni preliminari. 
Un dettaglio visibile a tutti ha poi attratto l’attenzione degli studiosi: le maniche a sbuffo e il particolare ricamo sul corpetto di Narciso alla moda del tardo Cinquecento, che ritroviamo identici nell’abito della Maddalena del Merisi esposta alla Galleria Doria Pamphilj di Roma. 


Michelangelo Merisi da Caravaggio, Narciso, 1594-1596, Olio su tela, 110 x 92 cm, Roma, Palazzo Barberini | Foto: Gallerie Nazionali d'Arte Antica - Biblioteca Hertziana

Dalla parte di Spadarino
L’atmosfera romantica, quasi lirica, di questo dipinto è davvero rara nell’opera Caravaggio: ecco il pungolo che ha spinto a ricercare altrove l’autore del Narciso. Giovanni Antonio Galli, detto lo Spadarino perché figlio di un fabbricante di spade, è noto per aver seguito le orme del Merisi, innovatore di gran moda nella Roma del Seicento. La sua pittura assorbe gli insegnamenti del Maestro, per poi ammorbidirsi in una nota di sensuale dolcezza, “senza intenzione di dramma, solo di sognante stupore” come scrisse Longhi. Una descrizione che ben si attaglia al capolavoro di Palazzo Barberini. Il Narciso non sarebbe la prima opera attribuita erroneamente a Caravaggio e poi restituita a Spadarino. 
Lo storicodell’arte Gianni Papi ha sostenuto fermamente questa ipotesi rintracciando alcuni particolari del Narciso in altre tele di Galli: il profilo del giovane cacciatore, per esempio, somiglia tanto a quello di un chierico presente nel Battesimo di Costantino di Colle Val d’Elsa da far pensare allo stesso modello, come pure la figura di Ganimede nel Convito degli dei conservato agli Uffizi. 
Ma un pittore di secondo piano come Spadarino avrebbe davvero potuto dipingere il Narciso? C’è chi sostiene che si tratti di una copia da un originale perduto di Caravaggio, chi invece propende per un’autentica truffa: Galli avrebbe realizzato il dipinto con l’intenzione di spacciarlo per una creazione del Merisi, sfruttando il successo dell’altro a fini economici. 

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