Maria Teresa Venturini Fendi, presidente della Fondazione Carla Fendi
Scienza ed arte per sorprenderci

A Moment in the Wind - courtesy © Fondazione Carla Fendi
Piero Muscarà
09/09/2025
Roma - Abbiamo incontrato Maria Teresa Venturini Fendi, presidente della Fondazione Carla Fendi, in occasione delle iniziative che intrecciano arte, scienza e creatività portate avanti dall'istituzione. Ne emerge una visione che pone il dubbio e l’imprevisto al centro del processo creativo, come dimostrato dall’incontro con William Kentridge, protagonista della lecture “Finding the Less Good Idea” al Festival dei Due Mondi 2025. La lectio di Kentridge, tenuta al Teatro Caio Melisso – Spazio Carla Fendi, ha portato in scena il concetto di “less good idea”, l’idea meno buona, nata ai margini del progetto principale e capace, proprio per il suo carattere imprevedibile, di aprire nuove prospettive creative. Una riflessione che Venturini Fendi ha fatto propria.
Maria Teresa, cosa l’ha colpita del lavoro di Kentridge?
Kentridge mi ha colpito moltissimo. L’idea che un centro di ricerca possa nascere dall’errore, dall’intuizione sbagliata, è vicinissima alla scienza. Anche Newton, Einstein o Hawking hanno avuto i loro “Eureka” in momenti inattesi, quando pensavano ad altro. È questo intreccio tra caso, incertezza e creatività che genera le scoperte più importanti. Io stessa sono una persona che vive di incertezze, di interrogativi continui. Trovo straordinario che Kentridge sappia trasmettere ai giovani il valore di non avere sempre certezze, di sentirsi a proprio agio anche dentro il dubbio. Avrei voluto incontrare un maestro come lui a vent’anni. Il suo metodo è prezioso perché ribalta la logica dell’efficienza a tutti i costi: dalle zone d’ombra può nascere la vera innovazione.
Il concetto di “idea meno buona” si lega alla filosofia scientifica?
Assolutamente sì. Serendipità, intuizione, incertezza: sono elementi fondamentali per innovare. La vera innovazione nasce dall’incertezza e dal dubbio. L’idea nata dall’errore, dalla deviazione, somiglia alla scoperta fortuita nella ricerca scientifica: mai pianificata, ma essenziale. La Fondazione ha lavorato spesso su questo legame tra scienza e arte.
Da dove nasce questo interesse?
La scienza cambierà tutto, non solo il nostro rapporto con la tecnologia ma anche la nostra visione della creatività. Non sono un’esperta, vengo da studi umanistici, ma proprio per questo mi incuriosiva affrontare un territorio nuovo. L’intelligenza artificiale, la robotica, le nuove scoperte modificheranno la nostra idea stessa di opera d’arte. Ho iniziato a frequentare laboratori e istituti di ricerca, dal CERN di Ginevra all’Istituto di Fisica Nucleare a Roma. È stato come aprire una porta su un mondo inaspettato.
Uno dei primi progetti importanti è stato il padiglione “Back to the Big Bang” al CERN.
Sì, perché oggi la matematica è diventata fondamentale, quasi come il latino un tempo. Lo vediamo nelle scuole di tutto il mondo. E poi ci sono figure straordinarie come Fabiola Gianotti, che ha guidato il CERN con una visione eccezionale. Credo che oltre alla ricerca conti molto anche la qualità delle persone che guidano queste istituzioni. Parallelamente al lavoro con il CERN, la Fondazione ha scelto artisti come William Kentridge. Sì, perché la scienza e l’arte hanno questa capacità di rompere gli schemi. La società ci spinge alla specializzazione, all’efficienza, ma è dal superamento delle regole che nasce il cambiamento vero. Anche per questo mi è piaciuta molto l’idea di Kentridge: trasformare la fragilità e il dubbio in strumenti di conoscenza.
Come nasce invece il legame speciale con Spoleto e con il Festival dei Due Mondi?
C’entra l’amicizia di Carla con Gian Carlo Menotti, che anch’io ho conosciuto e con cui ho lavorato. Il Festival è stato, come il CERN, un luogo multidisciplinare, capace di portare in Italia esperienze che altrimenti non sarebbero arrivate. Negli anni Sessanta a Spoleto passavano figure che non si sarebbero mai viste altrove in Italia. È stato un laboratorio straordinario.
Che differenza c’è tra la Fondazione Carla Fendi e altre realtà simili?
La nostra Fondazione è molto diversa dalle altre perché non ha marchi da promuovere. Questo ci consente una grande libertà, e la porto avanti da sola, come volle Carla. Mi piace pensare che possa crescere anche all’estero, con progetti artistici e sociali. E che rapporto personale ha con l’arte? Amo molto la letteratura, ma mi sono avvicinata anche all’arte visiva grazie a maestri come Plinio De Martis. Ho una predilezione per gli anni Cinquanta e Sessanta: li considero il nucleo originario dell’arte contemporanea, gli anni in cui si sono gettate le basi per tutto ciò che è venuto dopo. Mi affascina l’arte programmata, la ricerca di Azimut, il rigore di Manzoni e Fontana. Oggi, invece, a volte vedo un’arte troppo decorativa o provocatoria.
Guardando al futuro, quali sono i prossimi passi?
Stiamo pensando a Spoleto 2026. Mi piacerebbe lavorare con artisti come Arcangelo Sassolino, che usa macchine ed energia nei suoi lavori, ma anche con giovani coreani e cinesi molto interessanti. Decideremo più avanti, lasciando spazio a ciò che potrà sorprenderci.

Guy Robertson, Neo Muyanga, William Kentridge, MariaTeresa Venturini Fendi, Bronwyn Lace, Andrea Fabi a Spoleto per la lecture "Finding the Less Good Idea" del 9 luglio 2025 - courtesy © Fondazione Carla Fendi
Maria Teresa, cosa l’ha colpita del lavoro di Kentridge?
Kentridge mi ha colpito moltissimo. L’idea che un centro di ricerca possa nascere dall’errore, dall’intuizione sbagliata, è vicinissima alla scienza. Anche Newton, Einstein o Hawking hanno avuto i loro “Eureka” in momenti inattesi, quando pensavano ad altro. È questo intreccio tra caso, incertezza e creatività che genera le scoperte più importanti. Io stessa sono una persona che vive di incertezze, di interrogativi continui. Trovo straordinario che Kentridge sappia trasmettere ai giovani il valore di non avere sempre certezze, di sentirsi a proprio agio anche dentro il dubbio. Avrei voluto incontrare un maestro come lui a vent’anni. Il suo metodo è prezioso perché ribalta la logica dell’efficienza a tutti i costi: dalle zone d’ombra può nascere la vera innovazione.
Il concetto di “idea meno buona” si lega alla filosofia scientifica?
Assolutamente sì. Serendipità, intuizione, incertezza: sono elementi fondamentali per innovare. La vera innovazione nasce dall’incertezza e dal dubbio. L’idea nata dall’errore, dalla deviazione, somiglia alla scoperta fortuita nella ricerca scientifica: mai pianificata, ma essenziale. La Fondazione ha lavorato spesso su questo legame tra scienza e arte.
Da dove nasce questo interesse?
La scienza cambierà tutto, non solo il nostro rapporto con la tecnologia ma anche la nostra visione della creatività. Non sono un’esperta, vengo da studi umanistici, ma proprio per questo mi incuriosiva affrontare un territorio nuovo. L’intelligenza artificiale, la robotica, le nuove scoperte modificheranno la nostra idea stessa di opera d’arte. Ho iniziato a frequentare laboratori e istituti di ricerca, dal CERN di Ginevra all’Istituto di Fisica Nucleare a Roma. È stato come aprire una porta su un mondo inaspettato.
Uno dei primi progetti importanti è stato il padiglione “Back to the Big Bang” al CERN.
Sì, perché oggi la matematica è diventata fondamentale, quasi come il latino un tempo. Lo vediamo nelle scuole di tutto il mondo. E poi ci sono figure straordinarie come Fabiola Gianotti, che ha guidato il CERN con una visione eccezionale. Credo che oltre alla ricerca conti molto anche la qualità delle persone che guidano queste istituzioni. Parallelamente al lavoro con il CERN, la Fondazione ha scelto artisti come William Kentridge. Sì, perché la scienza e l’arte hanno questa capacità di rompere gli schemi. La società ci spinge alla specializzazione, all’efficienza, ma è dal superamento delle regole che nasce il cambiamento vero. Anche per questo mi è piaciuta molto l’idea di Kentridge: trasformare la fragilità e il dubbio in strumenti di conoscenza.
Come nasce invece il legame speciale con Spoleto e con il Festival dei Due Mondi?
C’entra l’amicizia di Carla con Gian Carlo Menotti, che anch’io ho conosciuto e con cui ho lavorato. Il Festival è stato, come il CERN, un luogo multidisciplinare, capace di portare in Italia esperienze che altrimenti non sarebbero arrivate. Negli anni Sessanta a Spoleto passavano figure che non si sarebbero mai viste altrove in Italia. È stato un laboratorio straordinario.
Che differenza c’è tra la Fondazione Carla Fendi e altre realtà simili?
La nostra Fondazione è molto diversa dalle altre perché non ha marchi da promuovere. Questo ci consente una grande libertà, e la porto avanti da sola, come volle Carla. Mi piace pensare che possa crescere anche all’estero, con progetti artistici e sociali. E che rapporto personale ha con l’arte? Amo molto la letteratura, ma mi sono avvicinata anche all’arte visiva grazie a maestri come Plinio De Martis. Ho una predilezione per gli anni Cinquanta e Sessanta: li considero il nucleo originario dell’arte contemporanea, gli anni in cui si sono gettate le basi per tutto ciò che è venuto dopo. Mi affascina l’arte programmata, la ricerca di Azimut, il rigore di Manzoni e Fontana. Oggi, invece, a volte vedo un’arte troppo decorativa o provocatoria.
Guardando al futuro, quali sono i prossimi passi?
Stiamo pensando a Spoleto 2026. Mi piacerebbe lavorare con artisti come Arcangelo Sassolino, che usa macchine ed energia nei suoi lavori, ma anche con giovani coreani e cinesi molto interessanti. Decideremo più avanti, lasciando spazio a ciò che potrà sorprenderci.

Guy Robertson, Neo Muyanga, William Kentridge, MariaTeresa Venturini Fendi, Bronwyn Lace, Andrea Fabi a Spoleto per la lecture "Finding the Less Good Idea" del 9 luglio 2025 - courtesy © Fondazione Carla Fendi
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